Critica - Opera Omnia >> Studi boccacceschi |
ilboccaccio testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere letterarie in prosa parafrasi traduzione In questi ultimi mesi un profondo ed operoso cultore degli studi sul Boccacci, Enrico Hauvette, riprendendo in esame, (1) dopo le osservazioni precise del Wilkins, (2) le testimonianze dirette del Petrarca e di Filippo Villani sulla nascita di Giovanni e quella indiretta che si ricava dallo stabilire quanto durò la dimora di Boccaccio di Chelino a Parigi, conchiudeva che si può ormai "tenir pour vraisemblable que Boccace naquit à l'extrème fin de 1313, sans en exclure les trois derniers mois, de janvier à mars, que, d'après notre façon actuelle de compter les années, nous rattachons à 1314". (3) Le considerazioni dell'Hauvette, che distruggono una supposizione del Crescini (4) ed un'asserzione arrischiata del Della Torre, (5) sono di per sé giuste e convincenti; ma, di più, trovano un'autorevole conferma in certe dichiarazioni autobiografiche, cui sino ad ora la critica aveva dovuto, dopo vari tentativi infruttuosi, abbandonare ad un'apparente discordia ed io invece mi sforzerò di conciliare in armonia. Tali dichiarazioni si riferiscono all'età che aveva il Boccacci quando per la prima volta giunse a Napoli. La meno determinata di queste attestazioni è nel noto episodio d'Idalagos, e precisamente nel principio della narrazione di lui. "La genetrice di me misero (così egli racconta) mi dié per padre un pastore chiamato Eucomos, i cui vestigi quasi tutta la mia puerile età seguitai". (6) Eucomos si sa ch'è Boccaccio di Chelino; per la pastorizia da lui esercitata si deve intendere la mercatura: (7) adunque dal passo si ricava che Giovanni per quasi tutta la puerizia, o quasi sino alla fine della puerizia, abitò col padre attendendo ad impratichirsi nella professione di mercante. Un poco più avanti, Idalagos accenna di nuovo a questo periodo della sua vita, menzionando anche l'avvenimento per cui quello ebbe termine. Ecco le sue parole: "Io, semplice e lascivo, come già dissi, le pedate dello ingannator padre seguendo, volendo un giorno nella paternal casa entrare, due orsi ferocissimi e terribili mi vidi avanti con gli occhi ardenti, desiderosi della mia morte, de'quali dubitando io volsi i passi miei e da quell'ora innanzi sempre d'entrare in quella dubitai. Ma, acciocché io più vero dica, tanta fu la paura, che, abbandonati i paternali campi, in questi boschi venni l'apparato uficio a operare". (8) "Questi boschi" designano Napoli; (9) i due orsi sembrano essere la matrigna del poeta, Margherita, e il fratellastro Francesco, primo figlio legittimo di Boccaccio; (10) tutto il significato autobiografico che si può ricavare, per la giustapposizione dei due passi, dalle parole d'Idalagos si deve dunque, con linguaggio proprio, parafrasare così: sin quasi alla fine della puerizia Giovanni abitò col padre, (11) s'attendendo, dietro l'esempio di lui, ad impratichirsi nella mercatura; resasi da ultimo insostenibile la sua presenza nel seno della famiglia, andò a Napoli ad esercitare la professione. Notiamo, per ora, la designazione temporale "quasi tutta la mia puerile età", che, per essere universalmente considerata nel medio evo come termine della puerizia la fine del quattordicesimo anno, (12) viene a dire quanto: 'non molto prima che avessi compiuto i quattordici anni'. Leggiamo ora queste poche righe della Genealogia deorum gentilium (XV, x), che ci forniscono un particolare nuovo: "Satis ... memini apposuisse patrem meum a puerizia mea conatus omnes ut negotiator efficerer, meque, adolescentiam nondum intrantem, arismetrica instructum, maximo mercatori dedit discipulum, quem penes sex annis nil aliud egi, quam non recuperabile tempus in vacuum terere". (13) Dunque, il nostro non aveva ancòra compiuto i quattordici anni quando il padre lo affidò al "grandissimo" mercante, né, d'altra parte, era molto lontano, in quel tempo, dal cominciamento della pubertà. Passiamo in fine al racconto di Caleone nell'Ameto, e fermiamoci sulle parole: "Io ... fanciullo cercai i regni etrurii, e di quelli, in più ferma età venuto, qui venni". "Qui" è Napoli, ove si trova Caleone nel momento che narra a Fiammetta, sul contaminato talamo, le sue vicende; egli continua a dire di una visione-presagio che ebbe nell'avvicinarsi alla porta della città, visione che gli fu interrotta da "contrario accidente e subito", ma non sì che l'immagine della bella donna verde-vestita, la quale l'avea preso per mano e baciato invitandolo ad entrare in Napoli, si dileguasse: "ma questo non operò che di quella la immagine si partisse da me, che, risentito, co'ridenti compagni mi vidi alla entrata de'luoghi cercati: ove io entrai, e l'età pubescente di nuovo, sanza riducere la veduta donna ne'miei pensieri, vi trassi". (14) Poiché di nuovo, in rapporto ad età pubescente, vuol dire, come fu già interpretato, (15) primamente, dobbiamo intendere che il Boccacci passò in Napoli i primi tempi della pubertà, la quale, ricordo, si faceva cominciare a quattordici anni compiuti, ossia col quindicesimo anno. (16) Ma quando era egli arrivato in quella città? L'espressione "in più ferma età venuto", da sola, non ci dice nulla, avendo evidentemente l'unico ufficio di contrapporre, per via di comparazione, due momenti diversi di una medesima fase della vita umana, e cioè l'età in cui Giovanni fu condotto in Toscana ("fanciullo cercai i regni etrurii") e quella in cui passò a Napoli; (17) ci soccorre invece questa frase del seguito del racconto di Caleone, in cui si usa una designazione cronologica più esplicita: "colei, che, nella mia puerizia vegnendo a questi luoghi (Napoli), apparitami e baciatomi, lieta m'avea la venuta proferta". (18) Ed ecco che tutto si spiega: l'arrivo a Napoli avvenne durante la puerizia del nostro, ossia innanzi all'inizio del quindicesimo anno, ma solo pochissimo tempo innanzi, perché subito dopo l'arrivo cadde il principio della pubertà: ciò ch'è chiaramente significato dallo stretto ed intimo nesso manifesto tra le due proposizioni "ove io entrai" e "l'età pubescente di nuovo ... vi trassi"; quest'estremo periodo della puerizia ai confini dell'adolescenza, ch'è quanto dire gli ultimi mesi del quattordicesimo anno, è poi giustamente designato come "età più ferma" della prima fanciullezza, nella quale Giovanni era stato condotto in Toscana. (19) Si scorge, dunque, tra i passi sin qui studiati una piena ed assoluta concordanza. (20) Il Boccacci stette col padre, facendo un po' di pratica e di preparazione alla mercatura, per quasi tutta la puerizia (Filocolo); fu posto presso un grandissimo mercante poco prima ch'entrasse nell'adolescenza (Genealogia); andò a Napoli ad esercitare la mercatura negli ultimi mesi della puerizia e colà trascorse il principio della pubertà (Filocolo e Ameto). Ma anche un nuovo rapporto si può vedere tra due di queste attestazioni autobiografiche: il "maximus mercator" della Genealogia, a cui Boccaccio di Chelino "dedit discipulum" il figlio, corrisponde perfettamente a Calmeta "pastor solennissimo", presso il quale Idalagos dice di aver dimorato appena giunto a Napoli. (21) Fondendo in un solo complesso tutti questi dati concomitanti, abbiamo da ultimo: sin quasi alla fine del quattordicesimo anno Giovanni restò in Toscana col padre; poco prima di compire quello, e di entrare nel quindicesimo, andò a Napoli, ove fu allogato presso un famoso mercante con cui rimase sei anni. (22) Ebbene, in che anno si deve porre l'arrivo a Napoli del nostro? Egli stesso ci mette sulla strada di rispondere alla domanda, facendoci sapere con una certa precisione quanto fu l'intervallo di tempo che passò tra il suo ingresso nella nuova residenza e il fatal sabato santo che segnò il principio della sua amorosa schiavitù. L'indicazione si trova nel racconto di Caleone, (23) in questa forma: dal momento dell'arrivo a Napoli sino alla visione-presagio, in cui Pampinea ed Abrotonia mostrarono al giovane "colei che sola sarebbe stata donna della sua mente" erano trascorsi sei anni interi; (24) da questa visione all'incontro nella chiesa di San Lorenzo passarono altri sedici mesi. (25) In tutto, dunque, dal primo all'ultimo avvenimento intercessero (stando a quanto fu inteso da tutti gli studiosi che osservarono questi dati (26)) sette anni e quattro mesi; nel quinto mese dell'ottavo anno dall'arrivo avvenne l'incontro. Ora, noi dobbiamo osservare come le parole dell'Ameto non ci licenzino punto ad ammettere che tra i due periodi temporali ivi accennati non corra alcun distacco: in altri termini, che i sedici mesi del secondo periodo si debbano senz'altro sommare ai sei anni del primo. Infatti, Caleone si limita semplicemente a dirci che tra l'una e l'altra visione erano scorsi sei anni interi; ma non è ammissibile che lo scrittore volesse rappresentarci la seconda apparizione di Fiammetta come avvenuta proprio nel giorno in cui ricorreva il sesto anniversario della prima. Non bisogna dimenticare che il Boccacci non prevedeva né certo poteva prevedere, usando quelle determinazioni temporali, di dar materia alle nostre indagini, di guisa che si dovesse tassativamente prescrivere la più matematica esattezza e precisione di termini in vista delle future costruzioni cronologiche dei moderni biografi. Possiamo quindi pensare con tutta libertà che, invece di quei settantadue mesi esatti, fosse passato tra le due visioni, o meglio tra gli avvenimenti reali che con esse l'autore intese di adombrare nell'Ameto, (27) uno spazio alquanto maggiore (in ogni caso, non così ampio da raggiungere addirittura i sette anni): qualche cosa, dunque, tra settantatre e ottantaquattro mesi, che, uniti ai sedici formanti il secondo periodo, costituiscono un intervallo oscillante tra gli ottantanove e i cento mesi da riconoscere decorso tra l'arrivo a Napoli e l'incontro del sabato santo. (28) Fissando questo definitivamente, secondo l'opinione che ormai s'avvia a prevalere tra gli studiosi, (29) al 30 marzo 1336, e risalendo indietro a tale data per una novantina o un centinaio di mesi, si riescirà a circoscrivere il momento dell'arrivo a Napoli ad un periodo compreso tra l'agosto-settembre del 1328 e il novembre-dicembre del 1327, limite estremo che non sarebbe prudente oltre-passare. E infatti tanto l'una che l'altra data, del 1327 e del '28, furono sin qui proposte a volta a volta; (30) con più fortuna, per altro, la seconda: alla quale tuttavia non sarà difficile mostrare perché non possiamo star contenti. (31) Noi sappiamo che verso la fine del 1327, e precisamente dopo il primo di settembre e avanti all'ultimo giorno di novembre, Boccaccio di Chelino andò a Napoli, (32) e, benché nulla ci attesti che in quel viaggio egli si portò seco il figliolo, pure tutto fa pensare che così avvenisse: la tenera età di Giovanni, la quale doveva sconsigliare ad un genitore di darlo, ad un conoscente di riceverlo in consegna per un tragitto lungo e rischioso; la necessità in Boccaccio di approfittare dell'occasione favorevole, che con la sua partenza gli si offeriva, di togliere il bastardo all'ostilità più o men palese della matrigna e del fratellastro, senza venir meno per questo al paterno dovere di vigilare sul figlio; il vantaggio, infine, di consegnare e raccomandare personalmente al "grandissimo mercante" di Napoli il giovinetto destinato con tanto impegno alla mercatura. (33) Or d'altra parte, poiché sappiamo che Giovanni arrivò a Napoli prima d'aver compiuto il quattordicesimo anno, sarebbe impossibile conciliare insieme la nascita di lui in un mese qualunque del 1313 con l'arrivo in un mese qualunque del 1328: uno dei due termini, per evidenti ragioni di calcolo, escluderebbe l'altro. Ma anche collocando, come io penso che si debba, l'arrivo in uno degli ultimi mesi del '27, la nascita non potrebbe in nessun caso restar fissata ad un mese del principio del 1313, e occorrerebbe egualmente posticiparla. Si arriva, così, o proprio alla fine del 'l3, o, come fu già mostrato possibile e d'ora innanzi sarà tenuto addirittura per probabile, ai primissimi mesi del 1314. II. Fiammetta. Alla distanza di seicent'anni dal giorno in cui nacque l'affascinante creatura, sulla quale un non incolpevole legame d'affetto doveva far scendere qualche raggio della gloria onde s'adorna il suo immortale amatore, è forza ancòra agli studiosi del Boccacci confessare una grande ignoranza intorno ai casi reali e alle attinenze famigliari di lei, e appagarsi di ricostruirne con le sole indeterminate e velate, se pur non iscarse, notizie che si ricavano dalle opere giovanili del nostro una biografia, che la mancanza di dati storici precisi rende di necessità insufficiente. (34) Dall'esame di due luoghi notissimi del Flocolo e dell'Ameto si ricava che la bella Maria (35) o Mariella (36) era nata da una gentildonna d'origine francese, (37) unitasi in matrimonio con un personaggio della famiglia d'Aquino; (38) dimorando in corte, questa dama (39) aveva acceso il cuore di Roberto, "di poco tempo davanti stato coronato de' regni", (40) e non aveva saputo resistere ai desideri del sovrano; (41) la fanciulla, concepita dall'adultero amplesso, o da un legittimo abbracciamento che nello stesso giorno avesse fecondato la madre, (42) era stata allevata non come una bastarda del re, ma "con tacito stile, sotto nome appositivo d'altro padre", (43) ossia del "putativo e forse vero": (44) in altri termini, in casa del d'Aquino. E, poco dopo, la madre era morta; (45) il marito di lei aveva affidato ad alcune monache sue congiunte (46) la bambina, "acciocché quelle di costumi e d'arte, inviolata servandola, ornassero la sua giovanezza". (47) E Cresciuta in età da marito, Fiammetta era stata vista da "uno dei più nobili giovani della terra là dov'ella nacque", il quale, "di fortuna grazioso e de' beni giunonichi copioso e chiaro di sangue", (48) riesci ad ottenerla in moglie; a lui ella apparteneva da "più anni", (49) quando il Boccacci ebbe la ventura di sorprenderla nel deserto talamo e di possederla. Quale fosse il nome dell'ingannato marito, il nostro si guarda bene, s'intende, e di dire e di far sospettare. Ecco, press'a poco, tutto quanto possiamo ricavare dalle opere del Boccacci; (50) molte, per ciò che alla biografia intima di Fiammetta si riferisce, queste notizie non ci dànno modo, per altro, di rispondere ad alcune semplici domande: chi furono i genitori di lei? chi il marito? quali, all'infuori delle relazioni sentimentali e sensuali col nostro, le principali vicende della sua vita? A tali domande le pagine che seguono vorrebbero dare, se un'immodesta illusione non mi fa velo al giudizio, la tanto desiderata risposta. La via, che io dovevo propormi, e mi proposi, di seguire tosto che mi accinsi all'identificazione storica di Fiammetta, non era difficile ad indovinare: si trattava di ricorrere alle varie genealogie, che si ànno a stampa, della famiglia d'Aquino, e di cercare se in esse, o in alcuna di esse, si trovasse una Maria, di cui le notizie biografiche corrispondano a quelle che conosciamo sul conto di Fiammetta. (51) La buona riuscita dell'indagine non mi parve più dubbia quando ebbi appreso che, in questi ultimi tempi, uno studioso diligente, già noto quale autore di accurate ricerche archivistiche sui rimatori della scuola siciliana e in particolare sui due, Rinaldo e Iacopo, della famiglia d'Aquino, si era accinto a pubblicare una nuova e amplissima genealogia di quella davvero insigne casata. Disgraziatamente, allorché potei scorrere tutte insieme la quarantina di tavole onde consta il lavoro dello Scandone, (52) mi accorsi che le mie speranze restavano deluse. Nessuna Maria, delle poche registrate in quelli alberi genealogici, (53) corrisponde, sia per l'età sia per gli altri particolari biografici, alla donna che fu amata da Giovanni. Sì che mi convenne "tenere altro viaggio". Supponendo, dunque, che i documenti (in ispecie quei preziosissimi Registri angioini, che lo Scandone à interrogato con tanta costanza e diligenza) non abbiano conservato proprio il ricordo di colei, tra le Marie d'Aquino, che dall'amore e dalla poesia era destinata ad una rinomanza così universale e duratura; mi accinsi, in luogo di una femmina che nessuna genealogia registra, a ricercare un personaggio maschile a cui si potesse attribuire la paternità, legittima o putativa, della Fiammetta, per riscontrarsi, nelle notizie di lui e del suo matrimonio, quella piena corrispondenza con i dati forniti dal Boccacci, che sola potrebbe acquistare credito ad ogni prudente proposta d'identificazione. Ma né anche sotto questo nuovo aspetto il problema si poté risolvere. Qui, prima di procedere, m'è necessario soffermarmi alquanto sopra una grave inesattezza, nella quale incappò, occupandosi di sfuggita della Fiammetta, lo Scandone. Egli credé (non so come: probabilmente per non aver letto, o riletto, le allusioni biografiche dell'Ameto da me riassunte qui sopra) che non il padre, ma la madre di lei appartenesse alla famiglia di san Tommaso; (54) una donna nata in casa d'Aquino, per tanto, sarebbe stata l'amante del re Roberto, e più precisamente: o la Margherita figlia dello sventurato conte d'Acerra Adenolfo IV, già damigella di camera della regina Iolanda moglie di Roberto, allora per anche duca di Calabria, (55) o un'omonima figlia di Cristoforo II conte d'Ascoli, divenuta erede di quella contea alla morte del fratello Cristoforo III nel 1317, ancòra sotto tutela nel 1306, sposata successivamente a due mariti nel 1320 e nel 1332. (56) È vero che lo Scandone stesso finì per scartare la seconda supposizione; (57) ma anche la prima, che a lui parve sostenibile, è infondata affatto. E senso delle parole che il Boccacci dedica ai genitori di Fiammetta è preciso e non si può spiegare diversamente da quanto si sia fatto sin qui: la madre di lei escì da una famiglia oriunda di Francia, il padre, vero o putativo che fosse, dai d'Aquino. (58) Era stato per l'addietro creduto che Fiammetta fosse nata da Tommaso, figlio del ricordato Adenolfo IV dell'Acerra (e fratello pertanto di quella Margherita di cui ò detto dianzi, il quale sposò una Sibilia o Sibilletta di Sabran, figlia di Ermengano che fu poi conte d'Ariano. (59) Ma il De Blasiis, profondo conoscitore della storia angioina, ricordò che quel matrimonio non avvenne nel 1308, come si riteneva, ma nel 1292; (60) perciò Sibilia sarebbe stata tutt'altro che giovine quando fu dato il banchetto in cui Roberto s'invaghì della futura madre di Fiammetta. D'altra parte, anche passando sopra questa difficoltà, resta quella, più grave, della modesta condizione di Tommaso: figlio di un giustiziato, tutti i suoi beni erano stati devoluti al fisco per la condanna del padre, ed egli espulso; la pietà del re gli aveva bensì concesso un assegno di 80 once all'anno, a titolo di alimenti, (61) se qualche mese dopo lo riammetteva nel Regno, ma ciò nondimeno egli restò sempre tale, che il Boccacci non avrebbe potuto qualificarlo tra i "sommati", né dire che aveva "non piccolo luogo" in corte. (62) Senza contare che di lui non si conoscono eredi, e probabilmente non ne ebbe; e forse anche il suo matrimonio con la Sabran, non consumato ancòra al tempo della condanna d'Adenolfo, fu sciolto. (63) Meglio parvero, invece, al De Blasiis concordare gl'indizi, ove al nome di Tommaso dell'Acerra si sostituisca quello di un Adenolfo uscito da un altro ramo dei d'Aquino, valletto poi scudiero e famigliare di Roberto duca di Calabria, a cui fu sempre carissimo e da cui fu donato della baronia di Castiglione, confermatagli dal re nel 1306; giustiziere di Valle del Crati nel 1309, maestro dei balestrieri, regio famigliare nel 1312, regio vicario in Ferrara nel 1313. (64) Ora, questo potente signore sposò nel 1304 una Stefania figlia di Andrea di Montefalcione, già vedova allora di un precedente marito, la quale "sicuramente era di nazione francese"; (65) e a lui parrebbero in vero convenire tutti gli accenni che si leggono nelle opere del Boccacci, se non s'opponesse il fatto che Adenolfo premorì alla moglie: (66) ciò che contrasta con una precisa affermazione del racconto di Fiammetta. Saggiamente, per tanto, il De Blasiis conchiudeva che, a meno di supporre inventate dal nostro scrittore circostanze immaginarie su questo particolare, anche la nuova ipotesi sulla nascita di Fiammetta "diventa incredibile, e si raddensano le tenebre che l'avvolgono". (67) Né, a diradar queste, gioverebbe sostituire altre ipotesi alle sin qui discorse, affaticandoci a ricercare, tra i d'Aquino potenti in corte sotto Roberto, quello a cui possano convenire le parole del Boccacci. Ecco, ad esempio, un altro Adenolfo, terzogenito di Cristoforo I conte d'Ascoli, anch'egli famigliare del re, che nel 1317 lo fece cavaliere insieme con Carlo duca di Calabria: la sua seconda moglie, Margherita di Corbano, era di famiglia francese, (68) ma fu sposata solo nel 1321, ossia troppo tardi per attribuirle la maternità di Fiammetta; (69) - ecco Berardo, fratello del precedente, che fu da prima chierico ed ebbe benefizi ecclesiastici, poi, tornato al secolo, godé il favore del sovrano, di cui fu sin dal 1311 famigliare e consigliere: più tardi diventò ciambellano e maggiordomo del duca di Calabria, indi di Roberto stesso; fu padrone, per successivi acquisti, di quasi tutta la città d'Aquino; comprò nel 1329 il castello di Loreto e due anni dopo ricevé per esso il titolo di conte; (70) sposò nel 1315 una dama d'origine francese vedova già di tre mariti, Maria Stendardo, (71) premorta bensì al quarto, ma in un tempo in cui il Boccacci già da due anni s'era innamorato di Fiammetta e questa da più altri ancòra aveva preso marito; (72) - ecco un Landolfo III signore di Grottaminarda, (73) di cui la seconda moglie, sposata forse avanti al 1317, fu una dama di stirpe francese, Giovanna figlia di Giacomo de Burson: (74) ma non si conosce se le tre figlie, Ilaria, Angela ed Isabella, nascessero da questo o dal precedente connubio; (75) - ecco ancòra Tommaso II, signore di Geneocastro e più tardi (1331) conte di Belcastro, marito successivamente di due francesi, delle quali la prima gli diede alcuni figli, non però una femmina di nome Maria ... Acutamente il Volpi notò (76) che in un passo dell'epistola, con la quale il Filostrato fu accompagnato a Fiammetta, il nome della donna apparisse designato come "di grazia pieno" (77) e che il Boccacci volle con questa perifrasi, riferendosi ad un'etimologia divulgatissima tra gli eruditi del suo tempo, significare in modo trasparente il nome di Giovanna. (78) Non era del pari accettabile la spiegazione che il Volpi addusse dello strano fatto, (79) ed egli stesso mostrò, abbandonandola poi tosto, di giudicarla infondata; ma non per ciò rimaneva meno giusto il rilievo che il "nome di grazia pieno" sia quello di Giovanna e non di Maria. (80) Ed ecco un raggio di luce imprevedutamente piombar sul mistero dell'identificazione storica di Fiammetta: si sarebbe ella, per avventura, chiamata anche Giovanna? Osservo che la cosa non à niente, in sé, d'impossibile. Di donne che avessero un doppio nome e che fossero chiamate ora in un modo ora in un altro non mancano, sin dal Due e Trecento, ricordi: nominerò, per addurne un solo, la moglie di Paolo de Malatesti, la quale in un documento si trova appellata "Orabilis sive Beatrisia" e in altri è detta solamente Beatrice. (81) O che si volesse evitare, in un tempo in cui i nomi si riproducevano con molta persistenza dagli ascendenti ne' discendenti, una qualche omonimia adoperando nell'uso famigliare un nome diverso da quello assegnato al battesimo e registrato negli atti pubblici; o che altre ragioni, facilmente immaginabili in maniera generica, per quanto non più, oggi, determinabili caso per caso, producessero il cambiamento: fatto è che non si vede nessuna obbiezione aprio-ristica da opporre a chi ammetta la possibilità che una donna fosse chiamata simultaneamente, ma in ambienti e in occasioni diverse, Maria e Giovanna. Si consideri che le allusioni del Boccacci al nome dell'amata dovevano essere, non dirò a tutti, ma certo alla maggioranza dei lettori contemporanei, trasparenti per lo meno quanto a noi; ora, se proprio con quel nome di Maria la donna fosse stata universalmente nota, non avrebbe corso un grave rischio e commesso un'imperdonabile indiscrezione il poeta accennandolo tanto imprudentemente? Già in addietro questo dubbio mi s'era varie volte offerto alla mente; e però la probabilità, rivelatami dall'osservazione del Volpi, che Fiammetta avesse un nome, a così dire, pubblico ed ufficiale diverso da quello che le attribuisce Giovanni nelle sue scritture amorose, mi parve subito da accogliere con molto favore. Da accogliere, s'intende, a condizione che sulla piena e perfetta convenienza di tutte le notizie date dal Boccacci intorno alla sua donna con quelle, che mi restavano a rintracciare, circa la presunta Giovanna d'Aquino, si possa fondare una seria proposta d'identificazione. Né costituisce un ostacolo il fatto che in due opere, l'una compiuta e l'altra incominciata e condotta innanzi per un buon tratto press'a poco nello stesso periodo di tempo, quali sono il Filostrato ed il Filocolo, (82) l'autore abbia indicato la medesima persona (83) con due nomi differenti. Infatti, senza voler cercare altre spiegazioni, basta considerare come nel passo del Filostrato il contesto non richieda che il nome della donna venga, a somiglianza di quanto accade in altri luoghi, chiaramente indicato per mezzo di una perifrasi; ma solo comporti un'aggiunta esornativa, un epiteto, a cui fornisce materia, nel caso speciale, un'allusione etimologica: ebbene, quest'allusione, posto che veramente la donna abbia portato i nomi di Maria e di Giovanna, non poteva farsi che al secondo, il cui noto valore di graziosa o piena di grazia si prestava ottimamente allo scopo. (84) È mia opinione, per tanto, che la Fiammetta, infruttuosamente cercata sin qui tra le Marie, si debba invece trovare tra le Giovanne di casa d'Aquino; le quali, per fortuna, son poche assai. Anzi, di tali che facciano veramente al caso nostro, (85) c'è addirittura una sola, che fu la figlia del già nominato Tommaso II di Belcastro. Costui, successo nel 1304 al genitore Tommaso I (ch'era stato signore di un terzo di Roccasecca, di parte d'Aquino, di Geneocastro e della baronia in Valle di Comino (86)), godé, a partire dal 1318, di una poco ordinaria fortuna alla corte di re Roberto. In quell'anno fu eletto, essendo già da tempo decorato della milizia, vicario generale del principato d'Acaia; poco dopo (1320) fu insignito del titolo di famigliare e ciambellano del re, indi fatto, nel 1331, regio consigliere e conte della terra di Geneocastro, ribattezzata per l'occasione col nome di Belcastro. Aveva però meritato con lunga e fedele attività tante ricompense: dal 1310, in cui era stato mandato con altri signori ad incontrare il nuovo sovrano reduce dalla Provenza, al 1332, quando, essendo giustiziere del Principato Citra, ebbe pieni poteri per reprimere il brigan-taggio, noi lo troviamo quasi costantemente in armi al servizio della monarchia: nel 1314 militava nell'esercito, nel '20 aveva sotto i suoi ordini 150 uomini d'arme da condurre alla guerra in Calabria; a questa partecipò nel 1321-22; nel 1326 accom-pagnò a Firenze il duca di Calabria e l'anno successivo seguì Giovanni principe d'Acaia e fratello del re a Roma, dove combatté contro le soldatesche di Lodovico il Bavaro; tra l'una e l'altra spedizione aveva avuto il 2 dicembre 1326 la missione di estirpare il brigantaggio dalle due province di Principato Citra e Ultra. Appare già defunto in data del 16 maggio 1339, ma certamente raggiunse ancor vivo l'anno 1338. (87) Ora, questo personaggio ebbe successivamente due mogli, (88) che uscirono da famiglie d'origine francese. La prima, dalla quale "nacquero i vari figli del conte di Belcastro", (89) fu Caterina, figliola di Lodovico de Mons, uno dei grandi ufficiali del Regno sotto Carlo I e Carlo II (90); era già morta l'8 giugno 1322, quando il vedovo marito otteneva che dalla suocera gli fosse ipotecato sopra un certo feudo un residuo della dote (400 once su 1000) di Caterina (91). A questa era, già prima del 2 marzo 1326, subentrata Ilaria figlia di Americo di Sus e vedova alla sua volta di almeno due mariti, (92) la quale nell'aprile 1334 viveva ancòra, e non si sa quando morisse. I figli di Tommaso II furon quattro: due maschi, Adenolfo primogenito (premorto al padre e Cristoforo, e due femmine, Fiore e Giovanna: la prima finì monaca in Santa Chiara e l'altra fu moglie di un signore di casa Sanseverino. Questo ci fa sapere il Della Marra, (93) genealogista "diligente quanto altri mai": tale è l'elogio, perfettamente meritato, che gli rivolge lo Scandone, (94) il quale tuttavia dissente da lui proprio nei rapporti di Giovanna. Ecco affacciarsi un piccolo problema, la cui soluzione, per altro, interessa nel modo più diretto queste mie ricerche. Il Della Marra, enumerando (95) i figli nati dal matrimonio di Tommaso I d'Aquino signore di Geneocastro con Filippa d'Aquino, (96) ricorda due femmine Giovanna ed Isabella, "le quali l'anno 1318 dimandano il paraggio a Tomaso lor fratello"; Giovanna, soggiunge quell'autore citando un documento del 1320, "con 400 oncie di dote si maritò con Goglielmo Stendardo". Lo Scandone riconosce ed accetta nella sua genealogia la Giovanna nata da Tommaso I, ma ne fa una stessa persona con L'omonima che il Della Marra dà per figlia a Tommaso II; attribuisce a quest'unica donna due mariti, lo Stendardo e il Sanseverino (97); nega infine apertamente l'esistenza di una Giovanna figlia di Tommaso II. (98) Se non che questa negazione cade da sé quando si osservi che la Giovanna moglie di Guglielmo Stendardo premorì al marito, il quale, rimasto vedovo, passò a seconde nozze con un'altra d'Aquino, Angela figlia di Landolfo III signore di Grottaminarda; (99) non poté perciò la donna andata sposa al Sanseverino essere la medesima stata già moglie di Guglielmo. Si deve quindi tener per certissima l'esistenza di una Giovanna nata da Tommaso II di Belcastro e diversa da un'omonima sorella dello stesso Tommaso (100); in quella prima appunto (l'altra va scartata per evidenti ragioni di cronologia (101)) convien riconoscere la sin qui tanto vanamente ricercata Fiammetta. Sgombrata così la via da ogni discussione, restano ad esporre le notizie che si conoscono di Giovanna iuniore, delle quali sarà facile mostrare quanto pienamente convengano con i dati che le opere giovanili del Boccacci ci serbano sul conto di Fiammetta. Ella era legata di uno strettissimo grado di parentela con il sommo teologo domenicano, di cui furon fratelli così l'avo del padre come la nonna della madre; coincidenza più curiosa, un'altra sorella del Doctor angelicus era stata la bisavola di suo marito (102). E padre di lei, vero o putativo che fosse, era un cavaliere e signore di molti feudi avente davvero "non piccolo luogo" alla corte di Roberto; la madre, Caterina de Mons, (103) era figlia di uno dei più alti uffiziali del Regno, venuto di Francia al seguito, probabilmente, di Carlo d'Angiò. (104) La fanciulla, nata, come pare, nella primavera del 1314, (105) non fu la primogenita di Tommaso d'Aquino: era certo più anziano di lei il fratello Adenolfo, premorto in ancor giovine età al genitore; (106) se dobbiamo credere a certi particolari ricordati a proposito di un finto sogno in un'operetta boccaccesca, (107) questo Adenolfo sarebbe perito di morte violenta, probabilmente assassinato. Più anziano, com'è supponibile, era anche l'altro fratello Cristoforo, (108) che insieme con la seconda femmina, Fiore, in cui rivisse il nome di un'antenata, (109) compì il numero dei figli di Tommaso d'Aquino. (110) Tutti costoro nacquero, come fu già espressamente osservato, da Caterina, la quale, morta in assai giovine età nel 1323 o '22 (111), lasciò la figlia Giovanna "ancora piccioletta" e "del tutto ignorante" del mondo. Poco dopo costei fu chiusa in un monastero; le circostanze che, nel racconto del Boccacci, accompagnano questo fatto paion ricevere una luminosa conferma dai documenti. Ci fa infatti sapere il nostro scrittore che il padre "putativo e forse vero" di Fiammetta, essendo "disposto a seguire" la moglie, abbandonò la figlia "a vestali vergini a lui di sangue congiunte". "Disposto a seguire" non vuol dire che effettivamente seguisse nella tomba la consorte (112); basta pensare chi egli fosse in realtà, o si tenesse, in pericolo di morte. Ora, il 13 settembre 1326, Tommaso, che si trovava in Firenze, dove aveva accompagnato Carlo duca di Calabria, otteneva che il principe ratificasse certe sue disposizioni testamentarie (113): era forse gravemente malato? Inoltre, considerando chi egli aveva già, al tempo del suo allontanamento dal Regno, sposato in seconde nozze Ilaria, parrebbe naturale che, timoroso di non più rivedere la patria, prima di partire avesse posto in un monastero le figlie Giovanna e Fiore, naturalmente non rammentata quest'ultima dal Boccacci. Fiore si chiuse poi, abbracciando la vita claustrale, nel convento del Corpus Christi o di Santa Chiara in Napoli (114); ma anche Giovanna provò per qualche tempo, secondo quello che di Fiammetta ci narra Caleone, una fortissima vocazione per quella vita. (115) Gliela fece sparire il matrimonio: un giovine ricco e nobile, Ruggero di Sanseverino figlio di Errico primogenito del conte di Marsico (116), la domandò in isposa e l'ottenne. (117) Quando fu stretta quest'unione? Se si considera che un figlio di Giovanna e di Ruggero, per nome Errico, venne fidanzato, sia pure in tenerissima età, sin dal 1335 ed appare nel gennaio 1349 già decorato del cingolo militare, (118) e che l'altra figlia Ilaria nel 1345 andò moglie a Filippo II di Sangineto conte d'Altomonte, non si potrà tacciare d'imprudenza chi creda che quelle nozze seguissero intorno al 1330, e forse non molto tempo dopo. Da buona fonte sappiamo che Giovanna fu sposata a Ruggero prima che questi fosse decorato del titolo di conte di Mileto (119), onore che lo stesso Roberto, il re "da sermone" di dantesca memoria, volle celebrare con un noioso discorsetto latino di scolastica fattura? (120) Dopo il suo matrimonio, dal quale, oltre al primogenito Errico (121) e ad Ilaria nominati sopra, nacquero un altro maschio, Giovanni (122), e un'altra femmina, Margherita, in processo di tempo andata sposa a Lodovico di Sabran conte d'Ariano (123), abbiamo assai scarse notizie della contessa di Mileto. Tutto quel che conosciamo di lei in questo periodo si ricava da due documenti: col primo dei quali, in data deI 27 marzo 1341, fu riconosciuto e confermato in suo favore il patto nuziale per cui Ruggero le aveva costituito il dotarlo sui propri beni (124); con l'altro, del 5 dicembre 1342, ella era nominata tutrice del nipote Tommaso III conte di Belcastro (125). Meno di tre anni più tardi, essendo ancor giovanissima, come quella che aveva da poco oltrepassato la trentina, Giovanna moriva; la data precisa del decesso, 6 aprile 1345, ci è conservata dall'epigrafe scolpita sull'elegante sarcofago che, a racchiuder la salma della gentildonna, le fu fatto inalzare dall'affetto dei superstiti congiunti nella cappella di San Tommaso o della Pietà in San Domenico Maggiore di Napoli. Ecco l'iscrizione: (1) ☨ HIC · IACET · CORPVS · GENEROSE · ET · DEO · DE- Scolpita nell'atteggiamento dell'ultimo riposo, l'immagine della defunta coperchia, sotto un padiglione ad arco acuto trilobato sorretto da colonnine a voluta, la bella arca, sui bordi superiore ed inferiore della quale, in due lunghi righi, corre la dicitura che ò testé riferito; tale il monumento sepolcrale in cui le ceneri di Fiammetta attesero la tardiva identificazione, che d'ora innanzi trarrà alla nobile chiesa napoletana il pellegrinaggio degli ammiratori del suo immortale poeta. (127) Chiuderò questi cenni ricordando che Ruggero, il quale alla contea di Mileto aveva unito, come si può vedere dal titolo dato a Giovanna nel suo epitafio, quella di Terranova ereditata da una congiunta, (128) prese parte alle turbolenze onde fu travagliato il Regno per l'ambizione dei Pipini (129) e per l'assassinio di Andrea; fu strenuo partigiano della regina Giovanna, tanto che nel 1350 Lodovico re d'Ungheria gli confiscò le sue terre (130), e visse almeno sino al 18 febbraio 1365, nel qual giorno fece testamento. (131) Era suo stretto parente l'«illustris vir» Iacopo di Sanseverino, conte di Tricarico e di Chiaromonte, che al Boccacci aveva raccontato certi partico-lari intorno alla fanciullezza di Roberto: tra le altre cose, con quanta difficoltà il futuro re si fosse lasciato indurre, per l'esca delle favolette esopiane, allo studio; (132) figlio di lacopo, e cugino del marito di Fiammetta, (133) fu quell'Ugo, conte di Potenza, più e più volte largo d'inviti, di promesse e d'appoggi allo scrittore quasi sessagenario, il quale alle sue calde istanze concedeva di lasciar trarre una copia della Genealogia deorum tuttora imperfetta. (134) Questa affettuosa ed erudita consuetudine, forse anche qualche incontro, nell'ultima triste dimora napoletana, col marito già da lui (non tuttavia da lui solo) ingannato, avranno fatto rifiorire a Giovanni, nella mente e nel cuore, l'immagine procace della bella gentildonna amata tant'anni prima così ardentemente.
ALDO FRANCESCO MASSERA.
________________ (1) In uno scritto dal titolo Pour la biographie de Boccace, nel Bulletin italien, XI, fascicolo del luglio-settembre 1911. La prima di queste "Discussions" (pp. 1-14 dell'estratto) riguarda la nascita del grande scrittore. (2) Si veda la sua nota The date of the birth of Boccaccio, nella Romanic Review dell'ottobre-dicembre 1910 (3) Cosí si legge a p. 9 dello scritto cit.; nella successiva è detto più risolutamente: ?Boccace est né à Paris à la fin de 1313, ou plutôt au début de 1314 (nouveau style)". (4) Contributo agli studi sul Bocc., Torino 1887, p. 41: ?che c'impedisce di credere ch' ei (il Boccacci) nascesse appunto a' primi mesi di quest' anno (1313)?" (5) La giovinezza di G. Bocc. (1313-1341), Città di Castello 1905, p. 126: ?come è noto (?), egli nacque dentro la prima metà del 1313"; il corsivo è dell' autore (6) Filocolo (mi valgo dell'edizione contenuta nei volumi VII e VIII delle Opere volgari di G. Bocc., Firenze, Moutier, 1829), 11, p. 238. (7) Cfr. Crescini, o. c., p. 8. (8) Filocolo, II, p. 243. (9) Crescini, o. c., p. 46 e n. q. (10) Il Della Torre, o. c., pp. 17-26, respinse giustamente l'opinione del Crescini, p. 46, per il quale i due orsi sarebbero stati Boccaccio e Margherita. Un appunto si può tuttavia fare al suo ragionamento: egli, fissando la partenza di Giovanni per Napoli alla fine del 1323 e la nascita del fratellastro Francesco alla metà del 1321, fa che il Boccacci venga a chiamare "orso ferocissimo e terribile" un bimbo di poco più che due anni: ciò ch'è un po' ridicolo ed evidentemente insostenibile (cfr. Giorn. stor. della letter. ital., XLVI, p. 209). Ma la partenza per Napoli, come mostrerò più oltre, avvenne quattro anni dopo il 1323; d'altra parte, Francesco è detto "maiorem decennio et proximum pubertati" nel doc. del 21 agosto 1333 scoperto dal Della Torre, sì che lo si può anche creder nato nel 1319 o nel '20, e così ogni difficoltà cronologica sparisce. Per l'Hauvette (Giorn. stor., LVII, pp.78-9) quest'identificazione della matrigna e del fratellastro di Giovanni coi due orsi assetati di sangue "frise l'absurde"; tuttavia anch'egli, contraddicendo ad una speciosa considerazione del più recente biografo del nostro, il signor E. Hutton, il quale segue fedelmente il sistema di cronologia boccaccesca proposto dal Della Torre (cfr. G. Boccaccio: a biographical study, London a1910, pp. 319-20), dové convenire che l'interpretazione dei due orsi è tanto meno inverisimile, quanto più il tempo della partenza di Giovanni dalla casa paterna si allontani dal 1321, cioè dall' ipotetica data della nascita di Francesco. (11) Anche in questo particolare mi sembra sia da seguire il Della Torre, che disse allevato Giovanni presso il padre (pp. 2-3), contro l' opinione del Crescini, il quale lo immaginò tenuto da Boccaccio fuori di casa "per riguardo alla moglie, che certo non poteva amare di vedersi il bastardo continuamente sotto gli occhi« (p. 46). Il Crescini ricordò a questo proposito il passo, di cui m'occupo su nel testo, del libro XV della Genealogia deorum, ove Giovanni riferisce di essere stato dal padre affidato ad un mercante, "che, quindi, lo tenne lontano dalla sua casa"; ma questa notizia si riferisce appunto al periodo successivo a quello della dimora nella casa paterna, e per l'antecedente non prova nulla. Di fresco, ma prima di conoscere il libro del Della Torre, aveva sostenuto a un dipresso le stesse idee del Crescini circa la dimora del Boccacci bambino fuor di casa ed i due orsi G. Traversari nell'introduzione a Le lettere autografe di G. Bocc. del cd. laur. XXIX, 8, Castelfiorentino 1905, p. 11. (12) Cfr. Della Torre, pp. 73-97. A p. 72 non è esatto che tutte le partizioni della vita umana correnti nel medio evo facciano, senza eccezione, finire la puerizia e cominciare la pubertà "nel 14° anno": si doveva dire "dopo il 14° anno" o "col 150"; meglio si legge a p. 100: "cominciando la pubertà dopo compiti i 14 anni". (13) Secondo l' autografo riprodotto da O. Hecker, Boccaccio-Funde, Braunschweig 1902, p. 288. (14) Per l'Ameto cito dall'edizione, assai diffusa, delle Opere minori di G. B., Milano, Sonzogno 1879: cfr. il passo in discorso a p. 225. (15) Da A. Hortis, Studj sulle onere lat. del Bocc., Trieste 1879, p. 2, n. 4; cfr. anche Della Torre, p. 71. (16) cfr. n. 12. (17) A torto, perciò, disse il Crescini ignorarsi ciò che intenda il Boccacci per "più ferma età" (nel Arit. Jahresbericht über die Fortschritte der Roman. Philologie del Vollmöller, III [1897], p.382); poiché questa espressione à solo un valore relativo, e per conseguenza mutevole secondo i casi, come si rileva dai seguenti esempi dell'uso boccaccesco: "poiché, lasciato il nutrimento delle balie, vennero a più ferma età" (Filoc., I, p. 75; è detto di Fiorio e Biancofiore fanciulli di pochi anni); "infino a questo giorno, così come la tua età è stata, per la gioventù, deboletta a sostenere, così con piccole scienze t'ò fatto nutricare; ora, che in più ferma età se' pervenuto . . ." (ivi, p. 90; son parole del re Felice, con le quali egli ricorda a Florio che à passato di quattro e più mesi i quattordici anni); "in fortiorem etatem evaseras" (nell' epistola Sacre famis et angelice viro: Traversari, o. c., p. 66; il "fortiorem" si contrappone a "puerilem etatem" precedente). "Età ferma" da sola invece significa, in genere, giovinezza, come in questo luogo: "egli (Cristo), già in età ferma pervenuto, cominciò a riempiere la terra dell'apportate armi" (Filoc., I, p. 11); Mopsa, nell'Ameto (ediz. cit., p. 178), dice di sé: "quindi pervenni alla età ferma, come tu mi vedi." Lo stesso valore à "fermi anni" nell'Ameto, p. 190. (18) Ameto, ediz. cit., p. 227. Più avanti (p. 228) è ripetuta la medesima indicazione: "colei, che nella mia puerizia ... mi apparve". (19) Il Della Torre, identificando (pp. 70-1) l'«età più ferma» con la puerizia, trovò designata l'infanzia, ch'è la fase precedente alla puerizia e meno ferma di questa, nella parola fanciullo dal Boccacci usata per indicare il tempo in cui egli passò in Toscana. Ma a fanciullo corrisponde il concetto di puerizia e non d'infanzia, sì che l'identificazione non regge: ciò di cui non sembra essersi reso conto l'Hauvette, che, accettando la spiegazione del Della Torre, mostra di tenere infanzia e fanciullo, età più ferma e puerizia per sinonimi (Pour la biogr. de Boccace, cit., pp.20-1). D'altra parte, quell'identificazione porterebbe, come conseguenza, a circoscrivere uno spazio di tempo troppo vasto entro cui collocare l'arrivo del nostro a Napoli, cioè il periodo settennale che va dal principio alla fine della puerizia: il che, se poté parer comodo al Della Torre (pp. 71-2), che vide in ciò un sostegno ad una certa sua tesi preconcetta (cfr. pp. 100-1), non sembra bello né proprio a chi cerchi nelle parole del Boccacci un po' di precisione. Alquanto più esattamente il Traversari, pur senza approfondire il valore delle singole espressioni del passo in discorso, scrisse: "Una più ferina età si può appena concedere sia quella che segna il confine tra la puerizia e l'adolescenza" (o. c., p. 14). (20) La riconobbe già chiaramente il Traversari, o. c., pp. 12-3; e, tra i due passi della Genealogia e del Filocolo, anche il Della Torre, p.28. (21) Filocolo, II, p. 243. Pastore significa qui mercante, come fu assai opportunamente rilevato dal Della Torre, p. 112, è dunque infondata l'identi-ficazione, che al Crescini parve sicura (o. c., p. 47), di Calmeta con il celebre astronomo Andalò di Negro; e tutto porta, invece, a creder giusta quella proposta dal Della Torre, pp. 112-6, per cui Calmeta sarebbe il destinatario dell'epistola Sacre famis. La supposizione parve ingegnosa al Traversari (p. 72, n. 5); fu invece combattuta, ma cavillosamente e, a mio parere, senza valide ragioni, da E. H. Wilkins (cfr. il suo scritto Calmeta, nelle Modern Language Notes, XXI [1906], pp. 212-6), che tornò alla vecchia identificazione con Andalò di Negro. Nessuno, per altro, à accostato prima d'ora il "maximus mercator" della Genealogia al pastore-mercante del Filocolo, è vero che per l'Hauvette (Giorn. stor., LVII, p. 81; Pour la biogr., p. 24) il grande mercante non avrebbe dimorato a Napoli ma a Firenze; almeno, nel passo capitale della Genealogia lo scrittore non stabilisce alcun rapporto tra il suo collocamento come apprendista e la partenza per Napoli: "ce sont les biographes qui ont pris l'habitude d'identifier les deux événements". Ma allora, diciamo noi, se si deve pensare che per una parte dei sei anni, durante i quali Giovanni stette presso il grandissimo mercante, egli seguitasse ad abitare Firenze, come spiegarci che Boccaccio di Chelino non avesse continuato a tenere il figlio presso di sé? Non era egli un abile mercante quanto alcun altro? Non sussiste poi la stranezza del fatto che "dans la république de marchands qu'était Florence" Boccaccio fosse obbligato a mandare il figlio a Napoli "pour lui faire apprendre le commerce": l'espressione "dedit discipulum" della Genealogia significa, non già che Giovanni dovesse imparare il mestiere, ma che fu posto a mettere in pratica le cognizioni ricevute, in qualità di apprendista o di commesso ("l'apparato uficio a operare", come dice Idalagos); si pensi al valore speciale che à anche oggi la parola alunno in certe carriere amministrative. Nell'allogare il figlio presso il massimo mercante, lo scopo di Boccaccio doveva essere quello di procurargli un'occupazione e di allontanarlo dalla famiglia (e quindi da Firenze), non già di farlo ammaestrare nel commercio. (22) Che Giovanni andasse a Napoli quand'era ancòra nella puerizia, prima dunque ch'entrasse nel suo quindicesimo anno di vita, ci è attestato anche da un passo dell'epistola a Francesco Nelli già rilevato dal Della Torre, p.123: "io sono vivuto dalla mia puerizia infino in intera età nutricato a Napoli" (cfr. F. Corazzini, Le lettere edite ed ined. di messer G. B., Firenze 1877, p. 140; per l'autenticità dell'epistola si veda G. Traversari, Giorn. stor., XLVI [1905], pp. 200 e sgg.). (23) Ameto, p. 227. (24) "Ancora che Febo avesse tutti i dodici segnali mostrati del cielo sei volte poiché quello era stato": cioè, dopo la prima visione di Fiammetta avuta da Caleone-Giovanni nell'avvicinarsi a Napoli. (25) "Ma sedici volte tonda e altrettante bicorne ci si mostrò Febea avanti che la servata immagine in me avesse a cui somigliarsi." Il Della Torre, p. 60, intese che i 16 mesi così indicati siano non già mesi comuni o solari, ma mesi lunari, e quindi di giorni 29 e mezzo ciascuno; se non che quest'interpretazione, a parte la trascurabile differenza, dev'essere respinta per i numerosi altri esempi del nostro, i quali mostrano doversi dare all'espressione il suo valore corrente e non quello di una rigorosa determinazione astronomica. Si legge in un passo della Fiammetta (nell'edizione delle Opere minori cit., p. 56): "O Febea, ... quanto più tosto quattro volte cornuta ed altrettante tonda t'avrai mostrata, cotanto più tosto il mio Panfilo tornerammi" (Panfilo aveva giurato all'amante di star fuori non più di quattro mesi: ivi, p. 48). Cfr. anche Filocolo, I, p. 28: "[la luna] quattro volte cornuta ed altrettante tonda s'era mostrata"; 11, p. 20: "videro Filocolo e' suoi compagni Febea cinque volte tonda e altrettante cornuta". Nello stesso modo si tratta di mesi comuni e non lunari in Inf., X, 79, e in altri esempi consimili. (26) Per l'Hauvette, ad esempio, è indiscutibile che l'intervallo tra l'arrivo a Napoli e l'innamoramento è precisato "avec une extrème rigueur" in sei anni e sedici mesi lunari; anzi questa è una delle poche testimonianze categoriche e formali, di cui va tenuto conto in primo luogo (Pour la biogr., pp. 14, 25; per i mesi lunari si veda qui sopra la nota precedente). (27) Al Körting (Boccaccio's Leben und Werke, Leipzig 1880, p. 150) le due visioni parvero "reine Fictionen"; anche il Crescini (o. c., p. 108, nota) mostrò di considerarle prive di qualsiasi fondamento reale quando le disse dovute "alla tendenza ed alla tradizione mistica", per la quale al nostro scrittore l'amor suo doveva apparire "come qualche cosa di arcanamente divino", oltre che ad una reminiscenza della Vita Nuova. Se si dovesse accettare tale spiegazione converrebbe anche, per necessità, negare ogni valor positivo a quelle indicazioni degl'intervalli corsi tra la prima e la seconda visione, poi tra la seconda visione e l'incontro. Ciò che, d'altra parte, repugna alla precisione cronologica onde tali indicazioni si presentano fornite; a buon conto, né il Körting né il Crescini osarono considerare quei dati come puramente fantastici. Ma non conviene fidarci di più all'opposta interpretazione, la quale indusse ad ammissioni poco prudenti, per citare un esempio solo, il Della Torre (o. c., pp. 104-5, 140-1): questi opinò trattarsi di reali visioni, di sogni "veramente" sognati, ma che presto si trasformarono nel ricordo del Boccacci, e, dopo sorto l'amore per Fiammetta, presero un nuovo aspetto e quasi il significato di profetici avvertimenti. L'opinione, quindi, più prudente ed attendibile è, in fondo, pur sempre quella del Landau, per cui non si nega una qualsiasi base di realtà alle due visioni, ma nello stesso tempo si ammette che tale realtà sia stata atteggiata fantasticamente dallo scrittore "in seiner allegorischen absichtlich räthselhaften Sprache" (cfr. G. Boccaccio, sero Leben und seine Verke, Stuttgart 1877, p. 33). (28) È inammissibile un'interpretazione più larga dei dati cronologici forniti dal Boccacci; ma diventa addirittura poco seria quella così rigorosamente precisa che propose il Della Torre, al quale l'intervallo tra le due visioni parve che si potesse determinare in 7 anni, 106 giorni e 19 ore: ciò che, prendendo come punto di partenza il 30 marzo di uno degli anni 1331 o 1336, lo portò a fissare l'arrivo a Napoli "al 13 dicembre del 1323 nel primo caso e del 1328 nel secondo" (cfr. p. 60)! Prescelto poi come millesimo il 1323, egli non esitò a indicare con tutta sicurezza quel giorno per la data dell'arrivo (p. 104). (29) Si vedano in proposito, per ora, le prudenti ma eloquenti manifestazioni a favore della data 1336 da parte dell'Hauvette (che riferisce anche il giudizio favorevole di due studiosi americani), Pour la biogr., pp. 14-6. Mi verrà in acconcio di tornare sulla questione in uno degli "Studi" successivi. (30) Già dal 1879 l'Hortis aveva detto (Studj cit., p. 2, n. 4) che l'andata del nostro a Napoli è da collocare "senza dubbio alcuno" al 1327 o '29; anche lo Hecker rimase un po' incerto, indicando come data il 1328 circa (o. c., p. 81, n. 2). Per l'autunno del 1327 si pronunziarono apertamente il De Blasiis (La dimora di G. Boccaccio a Napoli, nell'Arch. storico per le provincie napoletane, XVII [1892], pp. 510-1) e il Traversari (o. c., pp. 14-5): contro il primo il Crescini (Krit. Vahresbericht cit., III, pp. 382-3) ripresentò la data 1330, mentre ad ambedue contraddiceva il Della Torre, che intese a confutare particolarmente il Traversari in una lunga recensione, ove ripete in sostegno della data 1323 gli argomenti della sua opera maggiore (cfr. la Rass. bibliograf. della letter. ital., XIV [1906], pp. 58-66). Al 1328 si tennero invece A. Casetti (Il Bocc. a Napoli, nella Nuova Antologia, XXVIII [1875] p. 559), il Renier (La Vita Nuova e la Fiammetta, Torino-Roma 1879, pp. 243-4; per un errore di computo vi si parla di 1329 invece che di 1328!), l'Hauvette (Giorn. stor., LVII, p. 81; Pour la biogr., II "Le premier voyage à Naples", pp. 14-25): tutti costoro partono dal 30 marzo 1336, ma indietreggiano solo per 88 mesi e giungono così al dicembre 1328. Il termine accettato dall'Hauvette, che fa, del resto, sui dati cronologici della biografia giovanile boccaccesca, molte generiche riserve di principia, parve all'egregio studioso che ricevesse appoggio da un passo del racconto di Caleone nell'Ameto, onde, a parer di lui, risulterebbe aver avuto il Boccacci quindici anni quando giunse a Napoli; ma cfr., in contrario, la n. 19 e il contesto cui si riferisce. (31) E meno che meno, poi, alle date 1333, 1326, 1330, 1323 proposte dal Baldelli, dal Landau, dal Kòrting, dal Della Torre; date che sono in rapporto strettissimo con quelle del 7 aprile 1341, 27 marzo 1334, 11 aprile 1338, 30 marzo 1331 successivamente accettate per l'incontro primo con Frammetta: sì che, quando, a suo luogo, avrò confutato le ragioni addotte per sostenere l'ultima, che alla sua volta era stata avanzata dopo la confutazione delle antecedenti, verrà ad essere di per sé escluso ogni fondamento delle altre. (32) Cfr. R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, III, Berlin 1901, pp. 181-2 (n° 907). (33) A Che Giovanni andasse a Napoli in compagnia del padre, fu, com'è noto, sostenuto dal De Blasiis (art. cit., p. 511); ma il Crescini avversò come poco salda l'ipotesi, osservando che "il Boccaccio non accenna mai di esser passato a Napoli, insieme al padre; anzi, dove tocca del suo tramutarsi colà, dice affatto il contrario" (cfr. Krit. Jahresbericht cit., III, pp. 379-80). Il che non è vero; né il passo del racconto d'Idalagos su cui il Crescini fonda la sua asserzione giova a stabilire che Giovanni si sia trasferito a Napoli "da sé" e "fuggendo il padre". Un giorno, volendo entrare nella casa paterna, dice Idalagos, mi vidi davanti due orsi ferocissimi, e "tanta fu la paura, che, abbandonati i paternali campi, in questi boschi venni": ossia, lasciata Firenze, venni a Napoli. Nulla di più è possibile ricavare dal passo. Convien rammentare che per il Crescini uno dei due orsi era, a torto, Boccaccio di Chelino; vedi nota 10. (34) Tale è la più recente del Della Torre, pp. 181-92, riprodotta in tutti i particolari dallo Hutton, o. c., pp. 30-4. (35) Il nome è indicato con tutta chiarezza nell'introduzione del Filocolo, ediz. cit., I, p. 4: "lei (la fanciulla nata dall'adultero amore di Roberto) nomò del nome di colei, che in sé contenne la redenzione del misero perdimento, che avvenne per l'ardito gusto della prima madre". E più avanti, nel celebre episodio delle questioni d'amore (II, p. 30): "il suo nome è qui da noi chiamato Fiammetta, posto che la più parte delle genti il nome di colei la chiamino, per cui quella piaga, che il prevaricamento della prima madre aperse, si richiuse". Similmente ne-l'Amorosa Visione, cap. XLIII, vv. 55-9 (nella citata edizione Moutier delle Opere volgari, vol. XIV, p. 175): "Facendo sé da quella, in cui compresso Infine, "madama Maria" è nominata apertamente nel primo dei tre sonetti irregolari formati dall'acrostico dell'Amorosa Visione stessa. (36) Questa è la forma denunziata dal nome Alleiram, che porta la donna amata da Idalagos nel principale episodio autobiografico del Filocolo; cfr. Crescini, o. c., p. 69. (37) Ameto, p. 221: "Egli (Mida, ossia re Roberto) e' suoi predecessori venuti della togata Gallia molto onorando costoro (i d'Aquino), una nobile giovine venuta di quelle parti ... per isposa si congiunse al padre mio". Come "togata Gallia" il nostro designa la Gallia meridionale, ossia la Provenza (che invece avrebbe dovuto chiamare "bracata"), o pure la Gallia romanizzata in genere? (Cfr. qui oltre, n. 104.) Si tratta, in ogni modo, di una svista del Boccacci, non ancòra signore della sua erudizione, come ammise il Crescini, pp. 37-8. (38) Secondo il racconto di Fiammetta nell'Ameto (p. 221) un discendente della famiglia romana dei Frangipani o degli Annibaldi, lasciata Roma dopo il saccheggio dei Vandali, "di Giovenale lo oppido antico (Aquino) si sotto-mise, e, quello signoreggiando, a sé ed a' suoi discendenti, che a lei furono primi, diede cognome; de' quali alcuni, e tra quelli il padre suo, vennero alla città predetta (Napoli), e quivi tennero e tengono il più alto luogo appresso al solio di colui, che oggi in quella regge incoronato (Roberto)". Più esplicitamente è detto nell'Amorosa Visione, cap. XLIII, vv. 46-8 (ediz. cit., p. 174): ". . . . ell'era della gente cioè della stirpe a cui appartenne san Tommaso d'Aquino, seguace di san Domenico. L'origine dei d'Aquino dai Frangipani è insostenibile, come con ragione giudica il più autorevole dei genealogisti di quella famiglia, lo Scandone, in un'opera che citerò più oltre; essa era per altro ammessa correntemente nel secolo XIV. (39) "Dimorante nelle reali case" è detta nel Filocolo (I, p. 4) la madre di Fiammetta; e nell'Ameto (p. 222) à menzione tra le "Partenopensi": ivi si dice che ella, "tra poche a questo usate sempre", "spesso ricercava la reale corte, nella quale il marito avea non piccolo luogo". (40) Ameto, p. 222. L'incoronazione di Roberto avvenne il 4 settembre 1310. Poiché il Boccacci nello stesso episodio dell'Ameto fa da Pampinea ed Abrotonia qualificare Fiammetta come "donna ancora la sua età non tegnente" (p.226), ossia di poco tempo più giovine di lui, è giusto col Della Torre, p. 185, ritenerla nata nella primavera del 1314: il che non contrasta con ciò che, nello "Studio" precedente, s'è detto circa la probabile data della nascita del nostro. Secondo il Filocolo (I, P. 4) Roberto s'innamorò della d'Aquino e di lei generò Fiammetta "avanti che alla reale eccellenza pervenisse"; con le quali parole non si deve credere, come fece il Körting (o. c., p. 153, n. 2), che il Boccacci riferisca il fatto ad un tempo anteriore all'incoronazione di quel sovrano: e non v'è quindi contrasto con la precisa dichiarazione dell'Ameto. Infatti, mostrò già il Baldelli (Vita di G. Bocc., Firenze 1806, pp. 364-5) come la citata espressione del Filocolo significhi solo che Roberto, quando sedusse la madre di Frammetta, non era ancor pervenuto a possedere quelle qualità che sono il precipuo ornamento dei principi, ma era però già re; il che appunto risulta dall'antitesi tra "reale dignità" e "reale eccellenza" emergente nel passo, che riferisco per intero: "tra' quali [figli di Carlo II] uno, nominato Ruberto, nella reale dignità constituito rimase, interamente coll'aiuto di Pallade reggendo ciò che da' suoi predecessori gli fu lasciato; e, avanti che alla reale eccellenza pervenisse, costui, preso del piacere d'una gentilissima giovane dimorante nelle reali case, generò di lei una bellissima figliuola". Cfr. anche Renier, La Vita Nuova cit., pp. 219-20, in nota. Invece il Körting (pp. 154-5), partendo dalla contraddizione che vide tra l'Ameto e il Filocolo circa il tempo in cui Roberto s'innamorò della madre di Fiammetta, venne alla conclusione che il re se n'invaghisse nell'autunno del 1309, poco avanti o poco dopo l'incoronazione (questa però non accadde nel settembre di quell'anno, com'egli credé, ma del successivo); per lui la nascita di Fiammetta dovrebbe esser quindi seguita al più tardi nell'ultimo quarto del 1310. Quanto all'impedimento dell'espressione "donna ancora la tua età non tegnente l'(Ameto), il Körting vorrebbe superarlo intendendo età non nel suo usuale significato, ma in quello di vita, e parafrasando perciò: 'una donna che ancòra non à in sua balia la tua vita'! (41) Per il racconto della seduzione rinvio all'Ameto, p. 222, e al libro del Della Torre, pp. 182-4. (42) Ameto, p. 222: "onde che il violato ventre, o da questo inganno o dal proprio marito quello medesimo giorno seme prendesse, io fui nel debito tempo frutto della matura pregnezza". Poco esattamente, e anche poco seriamente, il Della Torre (p. 184), seguìto dallo Hutton (p. 31), trasformò in certezza l'espressione dubitativa del Boccacci, asserendo che, lo stesso giorno che la donna era stata det re, fu sollecitata pure dal marito. (43) Filocolo, I, p. 4. (44) Ameto, p. 223. Si noti tra i due passi questa differenza circa l'origine di Fiammetta: che nel Filocolo ella è detta senz'altro figlia del re, mentre nell'Aneto si lascia in dubbio quale fosse il vero padre, se Roberto o l'Aquinate ("di padre dubbio", "di padre incerto figliuola, due ne tenni per padri"). (45) Ameto, p. 222: "essendo io (Fiammetta) ancora piccioletta, ... la madre mia, disposta a mutar mondo, come ella fece . . .". (46) Ivi, p. 223: "il [padre] putativo, e forse vero, disposto a seguire la mia madre, a vestali vergini a lui di sangue congiunte mi lasciò piccioletta". Osservo che dalle parole del Boccacci non è lecito indurre che il d'Aquino morisse appunto in quell'incontro; "disposto a seguire la mia madre" significa solamente 'essendo in pericolo di morte, temendo di morire', e nulla più: è perciò imprudente asserire, come fa il Della Torre (p. 185), che Fiammetta, mòrtale la madre, "poco dopo perse anche il padre". (47) Ameto, p. 223. Secondo una supposizione del Casetti (art. cit., p. 575), accolta anche dal Della Torre, pp. 185-6, le monache a cui fu affidata Fiammetta sarebbero state quelle del convento benedettino annesso alla chiesa di S. Arcangelo a Baiano; ma l'Ameto non fornisce nessun fondamento a questa ipotesi. Le monache di S. Arcangelo son invece ricordate nell'introduzione al Filocolo (I, p.6: "la fortuna mi balestrò in un santo tempio dal principe de' celestiali uccelli nominato, nel quale sacerdotesse di Diana, sotto bianchi veli e di neri vestimenti vestite, coltivavano tiepidi fuochi"); presso di loro Giovanni incontrò in visita la sua donna ed ebbe da lei l'invito di scrivere la storia degli amori di Florio e Biancofiore. (48) Ameto, p. 223. (49) Ivi, pp. 223-4, Per il Della Torre, p. 188, il matrimonio avvenne press'a poco nel 1329, quando la donna aveva quindici anni. La molta giovinezza non farebbe davvero ostacolo ad accettar questa data; ma il Della Torre non l'escogitò se non perché aveva assegnato al 1331 il principio dell'amore del Boccacci, e in quel momento Fiammetta "era già maritata, non solo, ma aveva avuto tempo di commettere più di una infedeltà". Ritardando la data dell'incontro al 1336, non vi sarebbe più bisogno di conservare il matrimonio proprio al 1329; se non che considerazioni positive (cfr. p. 217) non permettono di allontanarci troppo da quest'anno. (50) Si potrebbe aggiungere col Della Torre, p. 182, che Fiammetta aveva anche delle sorelle e di più aveva perduto per morte violenta un fratello, la cui immagine sanguinosa e pallida e brutta di acerbe piaghe ella finge, mentendo al marito la cagion vera di un suo pianto notturno, le sia apparsa nel sonno; ma questi dati, che si rilevano dalla sola Fiammetta (ediz. cit., pp. 101, 114, 117), non m'inspirano un'eccessiva fiducia. (51) Aveva, com'è naturale, avuto lo stesso pensiero, più d'un secolo fa, il benemerito Baldelli (Vita cit., pp. 359-60); ma infruttuosamente egli scorse la genealogia dei d'Aquino nella prima parte Delle famiglie nobili napoletane di S. Ammirato (Firenze 1580). Gli rimasero invece ignote le opere genealogiche di F. Campanile, Dell'armi overo insegne dei nobili, Napoli 1618, e di F. Della Marra, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere, o non comprese ne'Seggi di Napoli ecc., Napoli 1641: in nessuna delle quali, tuttavia, fu presa in considerazione la questione dell'identità di Fiammetta. (52) D'Aquino di Capua, per cura di F. Scandone, nella II: serie delle Famiglie celebri italiane in continuazione dell'opera del Litta. Sono 41 tavole stampate in Napoli, presso Detken e Rocholl, dal 1905 al 1909. L'avvertenza preliminare (tav. I) porta la data dell'aprile 1904. (53) Tre sole si trovano a vivere nei primi decenni del secolo XIV, ma nessuna raggiunse il tempo in cui il Boccacci corteggiò ed amò Fiammetta: non la figlia di Tommaso I signore di Grottaminarda, ricordata negli anni 1299 e 1305 (Scandone, tav. XXI); non quelle di Rinaldo IV, il rimatore, e di Adenolfo I signor di Roccasecca, morte rispettivamente avanti il 15 marzo 1324 e il 20 gennaio 1323 (tavole XI e XXV). Maria si chiamò anche una sorella di san Tommaso, figlia di Landolfo I di Roccasecca (tav. IX), ma non oltrepassò certo il secolo XIII. (54) Cfr. tav. XV: "Questi (il Boccacci) fa dal lato materno discendere l'amata da una grande famiglia, che aveva dato un gran santo alla chiesa". (55) Il padre fu arso vivo nel 1293 sotto accusa di delitto contro natura. Margherita era damigella di Iolanda duchessa di Calabria, quando, per volere di Carlo II, sposò il milite Guglielmo Pallotta messinese, nominato maresciallo del Regno il 28 ottobre 1301 (cfr. C. Minieri Riccio, Cenni storici intorno i Grandi Ufizzi del Regno di Sicilia durante il regno di Carlo I. d'Angiò, Napoli 1872, p.245) e morto avanti il 23 febbraio 1303; nel 1315 ella si rimaritò con Filippo di Sangineto, signore di Brahalla, del qual luogo, mutatone il nome in quel d'Altofiume e quindi d'Altomonte, egli ebbe nel 1337 il titolo comitale: fu inoltre (1330) gran giustiziere del Regno "in ricompensa del suo valore, e - dice lo Scandone - forse anche di altri meriti". Questi "altri meriti" sarebbero appunto la tolleranza di Filippo circa i colpe-voli rapporti correnti tra sua moglie ed il re. Margherita è nominata per l'ultima volta il 2 agosto 1328; morì non si sa quando. Secondo la congettura dello stesso Scandone, che, del resto, non fu espressa senza qualche riserva, frutto di quelli amori regali fu la Maria amata dal Boccacci: "di questa figliuola nessuna traccia v'è nei documenti; ma non mancano indizi per suffragare la ... congettura". Gl'indizi sono invece, comé s'è visto, insussistenti. Cfr. Scandone, tav. XV; ed anche Della Marra, o. c., p. 357. (56) Era già morta il 18 settembre 1344; dal primo marito Riccardo Marzano (il secondo fu Raimondo del Balzo, signore e più tardi conte di Soleto) ebbe una figlia Maria, che nel 1346 fu riconosciuta contessa d'Ascoli per succession della madre. (57) Cfr. tav. XVIII: «Non pare che la identificazione di Margherita (contessa d'Ascoli) con la madre di Fiammetta, e di questa con Maria de Marzano sia possibile. Il cognome "De Mariano" era forse una lustra, o il matrimonio della D'Aquino col primogenito del conte di Squillace era servito a celare la vergogna dell'amante del re? Ma, anche in questo caso, la rapida carriera in corte l'avrebbe fatta il suocero Tommaso de Marzano, e non il marito, morto giovanissimo, della D'Aquino, mentre si sa che ad altissimi onori pervenne il marito della madre di Fiammetta. Se questa fu una bastarda e perciò senza cognome, e se la madre fu una D'Aquino, per identificare costei bisogna fermarsi su Margherita d'Acerra, figlia dello sventurato conte Adenolfo». (58) Cfr. qui indietro n. 38. (59) Cfr. M. Camera, Annali delle Due Sicilie, tomo II, Napoli 1860, p. 470; C. Modestino, Della dimora di T. Tasso in Napoli, discorso secondo, Napoli 1863, p. 192, n. r. Accolsero l'identificazione il Landau, o. c., p. 34, nota; il Körting, p. 153; ed altri molti. (60) La data giusta figurava già presso il Della Marra, o. c., pp. 46 v e 68. Cfr. poi Scandone, tav. XV. (61) Non nel 1308, come ripete il De Blasiis sulla fede dell'Ammirato (o. c., p. 146), ma nel 1294. Cfr. Scandone, tav. citata. (62) De Blasiis, Le case dei principi Angioini nella piazza di Castelnuovo, nell'Archivio stor. per le prov. napolit., XII [1887], p. 308, n. 1. (63) Cfr. Scandobe, tav. XV, che dà queste altre notizie di Tommaso: dopo la riammissione nel Regno, egli fu accolto nella corte come scudiero; nel 1295 fu armato cavaliere, fatto milite famigliare e la provvigione portatagli da 80 a 120 once; morì dopo il 1301, forse in battaglia. (64) Il De Blasiis, art. cit., p. 309, in nota, errò dicendo questo Adenolfo figlio di un Aimone d'Aquino. Fu suo padre Tommaso detto d'Alvito. Cfr. Scandobe, tavole VII, XIX e XXIV; nell'ultima si trova una copiosa e documentata biografia del personaggio. (65) Ci sarebbe alquanto a ridire su quest'affermazione del De Blasiis. Com'egli riferisce, un fratello di Stefania si dichiara nel 1314 vivente iure Francorum, ma ciò non significa punto che la famiglia fosse oriunda di Francia. Intanto, il casato di Montefalcione non si trova nella Table des personnages français mentionnés dans les Régistres angevins comme ayant passé dans le royaume de Sicile sous le régne de Charles 1er, che forma la parte quarta dell'opera di P. Durrieu, Les Archives angevines de Naples, Paris 1886 (to.11, pp. 215 e sgg.). (66) Egli era già defunto nell'agosto 1334 e Stefania viveva ancòra nel 1335. (67) Di Adenolfo e Stefania si conoscono due soli figli, Tommaso e Tommasa. Il primo fu barone di Castiglione dopo il padre ed ebbe varia discendenza; la femmina, morta avanti il 10 novembre 1348, sposò Pietro de Cancellaria, cavaliere, signor di Cancellaria e Pietragalla in Basilicata. Cfr. Scandobe, tav. XXIV. (68) Nella citata Table del Durrieu (p- 308) trovo tre individui col co-gnome "de Corban" o "de Curbano". (69) E lo stesso Adenolfo morì nell'agosto di quell'anno, lasciando incinta la vedova, che nell'aprile 1322 partorì postumo un altro Adenolfo; cfr. Scandobe, tav. XIX. La prima moglie, sposata nel 1311, Maria figlia del celebre Giovanni Pipino, era morta senza prole nel 1319 (Della Marra, o. c., p. 286). (70) Cfr. Scandobe, tav. XXX. Morì alla fine dei 1345 o nel principio del '46. (71) Cfr. Durrieu, o. c., p. 317; su questa Maria, figlia di Galasso Stendardo, v. Della Marra, pp. 402-3 (lo Scandobe le dà tre mariti in tutto). (72) Fu loro figlio Tommaso, secondo conte di Loreto (? avanti il 1351), marito in prime nozze, nel 1332, di una francese, Tommasa de Sus, che però non gli dié figli (Scandobe, tav. XXXI; Della Marra, p. 409). (73) Nacque nel 1288 e morì poco dopo il 9 febbraio 1344; andò nel 1310 incontro al nuovo re Roberto che dalla Provenza tornava nel Regno (Scandobe, tav. XXI (74) Cfr. Durrieu, pp. 295-7, alle voci "de Brussone" e "de Burson". (75) Lo Scandobe non si pronunzia; il Della Marra (p. 48r) non parla affatto delle figlie di Landolfo. (76) Cfr. Il Trecento, Milano [1898], p. 264, in nota alla p. 93. L'osservazione sparì totalmente dalla seconda edizione pubblicata nel 1907. (77) Dalla stampa di F. Corazzini, Le lettere edite ed ined. di messer G. Bocc. cit., p. 12, riferisco questo passo per intero: "E similmente le mie voci, le quali già alcuna volta, mosse non so da che occulta letizia proce dente dal vostro sereno aspetto, in amorosi canti e in ragionamenti pieni di focoso amore s'udirono sempre poi chiamare il vostro nome di grazia pieno, e Amore per mercede, e la morte per fine de' miei dolori". Ò modificato leggermente la punteggiatura, come richiede una più corretta interpretazione. (78) È superfluo ricordare il passo chiaramente significativo di Dante, Par., XII, 50; riferirò invece una spiegazione di Iacopo da Varagine: "Iohannes interpretatur Dei gratia, vel in quo est gratia, vel cui donatum est, vel cui donatio a Deo facta est" (Legenda aurea, rec. Th. Grässes, Vratislaviae 1890, p. 56). Che il Boccacci conoscesse quest'etimologia, non è pur da dubitare: in un luogo infatti egli, alludendo a se stesso, dice "pieno di grazia" il suo nome (Filocolo, II, p. 8; cfr. Crescini, o. c., p. 73); altrove designa una Giovanna come "di nome pieno di grazia nominata" (Filocolo, II, p. 45); altrove ancòra si legge: "una donna onesta nell'aspetto molto, il cui nome graziosa è interpetrato, e veramente è in lei il nome consonante coll'effetto" (ivi, p. 103). (79) Il Boccacci avrebbe voluto, con quell'espediente, sviare i sospetti che fossero potuti nascere circa la sua tresca con Frammetta, lasciando credere ai curiosi ed ai malevoli che sotto questo pseudonimo non fosse da intendersi la Maria d'Aquino, ma una Giovanna, la quale avrebbe fatto per conseguenza da donna dello schermo. Il Volpi ammise parlarsi di questa medesima Giovanna in una canzone creduta boccaccesca, che comincia Tant'è 'l soperchio de'miei duri affanni (nelle Rime di messer G. Bocc. per cura del Baldelli, Livorno 1802, pp. 79-82; cfr. i vv. 64-5: "Bontà di quella, che del nome mio | È nominata"). Ma la canzone è ormai riconosciuta sicuramente apocrifa: si veda la mia nuova edizione delle Rime, Bologna 1912, pp. cvi-cx. (80) Il Crescini (Di due recenti saggi sulle liriche del Boccaccio, negli Atti e Mem. della R. Accademia di scienze, Utt. ed arti in Padova, n. s., XVIII [1902], pp. 63-4) riconobbe tutto il valore dell'osservazione del Volpi, ciò ch'è tanto più significativo, se si pensa che nel suo Contributo il passo del Filostrato era stato spiegato come allusivo al "nome di Maria" (p. 188, n. 2). Anche nei Krit. Jahresbericht del Vollmöller, V [1901-1903], p. 286, egli tornò ad occuparsi dell'argomento, rincalzando di nuove considerazioni l'ipotesi dello schermo; ma non rinunziò tuttavia al sospetto che la frase "nome di grazia pieno", la quale ricorda le parole della salutazione angelica, possa indicare proprio Maria d'Aquino. (81) Cfr. L. Tonini, Rimini nel sec. XIII, Rimini 1862, pp. 261-2, note 3 e 4; Beatrice si chiamava l'avola materna di Orabile, alla quale il secondo nome fu evidentemente apposto per riprodurre quello dell'antenata. (82) Per la determinazione di quella tra le varie fasi della storia amorosa del nostro, in cui fu composto il Filostrato, seguo, naturalmente, la magistrale trattazione del Crescini, Contributo cit., pp. 197-208, da lui stesso difesa e nuovamente confermata nel Crit. Jahresbericht, III, pp. 385-8; ad essa si tenne anche, per tacer d'altri, il Della Torre (p. 245, n. 3). Non egualmente sicura è invece l'asserzione del Crescini che il Filocolo sia stato cominciato prima del Filostrato; è questo un punto che richiede un più attento e particolar esame, quale non risulta che sia stato fatto sia qui dagli studiosi del nostro scrittore. (83) Non v'ha dubbio (dice il Crescini, Contr. cit., p. 188, n. 2) che la Fiammetta, cui è dedicato il Filostrato, sia sempre la nota Maria d'Aquino". (84) Non direi invece che sia allusivo all'etimologia del nome Giovanna quel che dice Ascalione di Fiammetta: "ella, siccome senza fallo conosco, è d'ogni grazia piena e di bellezza" (Filocolo, II, p. 33). (85) Ciò non può dirsi di una Giovanna che nacque da Tommaso II conte dell'Acerra, menzionata tra il 1289 e il 1300 (Scandone, o. c., tav. XIV); né di un'altra che fu figlia di Gentile ucciso alla battaglia di Tagliacozzo e, da prima proscritta, tornò già vedova nel Regno l'anno 1301 (tav. XII). (86) Scandone, tav. XXVI. (87) Ivi, tav. XXVII. (88) Lo Scandone gliene attribuisce tre; la terza sarebbe stata una Costanza figlia di Filippo II di Sangineto conte d'Altomonte e Corigliano: costei, rimasta vedova del conte di Belcastro, si sarebbe poi rimaritata con Ugo di Sanseverino conte di Potenza. è bene rilevare che di quest'ultimo matrimonio lo Scandone non conobbe, o almeno non citò, alcun documento d'archivio; sì addusse la sola autorità del Della Marra (o. c., pp. 50 e 357). - Il quale ci fa anche sapere (p. 357) che Filippo di Sangineto aveva sposato Ilaria di Sanseverino, la madre di Costanza, nel 1345: per tanto questa non poté assolutamente divenir moglie di Tommaso II d'Aquino, ch'era morto sin dal 1339. Sarà dunque da credere o che il Della Marra si sia ingannato facendo nascere Costanza da Ilaria Sanseverino anzi che da una precedente consorte di Filippo di Sangineto, o che il conte di Belcastro marito di Costanza sia stato non Tommaso II, ma il suo nipote e successore Tommaso III (☨ 1375). Mi par molto più probabile quest'ultima ipotesi, per quanto a Tommaso III il Della Marra (p. 50) dia per moglie una figlia del suddetto Ugo di Sanseverino conte di Potenza, e lo Scandone (tav. XXVII) ripeta tal quale la notizia. Si potrebbe anche sospettare che il padre di Costanza sia stato non Filippo II, ma l'avo suo Filippo I di Sangineto, primo conte di Altomonte, il quale sposò nel 1315 Margherita d'Aquino (cfr. n. 55): in questo caso soltanto apparirebbero probabili le nozze di Costanza con Tommaso II. (89) Son parole dello Scandone (tav. XXVII), che per errore chiama Giovanna la donna. Ma i documenti parlano chiaro (cfr. qui sotto la n. 3). (90) Morì, dopo aver reso segnalati servigi ai suoi sovrani a partire dal 1269, tra il 9 e il 0 agosto del 1294; su lui cfr. Minieri Riccio, o. c:, pp. 108-14, e Durrieu, o. c., II, p. 351: quivi son registrati, tra i Francesi venuti in Italia con Carlo I, altri sette "de Montibus". (91) Ecco la parte sostanziale del documento: "Dominus Thomasius de Aquino, familiaris et fidelis paternus et noster (il doc. è in nome di Carlo duca di Calabria, vicario del Regno), nobis nuper exposuit quod dudum, a tempore scilicet contracti matrimonii inter eum et quondam dominam Catarinam filiam domine Iohanne de Aquila, ipsa domina Iohanna, pro unciis auri quadringentis ad solvendum ipsi exponenti restantibus per dictam Iohannam eamdem de summa unciarum mille promissarum exponenti prefato per dominam Iohannam iam dictam in dotem et dotis nomine pro domina Catarina iam dicta, obligavit eidem exponenti quoddam tenimentum suum seu feudum, Persanum communiter nuncupatum, situm in iusticiariatu Principatus citra Serras Montorii"; supplica per tanto il detto Tommaso che sia dato il regio assenso all'ipoteca, come il vicario graziosamente gli accorda (Reg. angioino CCXXXIX, c. 33v) - La madre di Caterina fu Giovanna dell'Aquila, figlia di Ruggero II e sorella di Riccardo IV conti di Fondi, cui Lodovico de Mons sposò secondo ogni verisimiglianza nel 1291, poiché la prima moglie gli era morta poco innanzi al 16 agosto 1290; rimasta vedova, Giovanna s'ammogliò a Giacomo de Burson viceammiraglio del Regno, defunto nel 1300. Per queste notizie cfr. Minieri Riccio, pp. 114 e 55. In seguito Giovanna è ricordata nel 1305 come dimorante presso la regina (B. Amante e R. Bianchi, Memorie stor. e statutarie del ducato, della contea e dell'episcobato di Fondi, Roma 1903, p. 103), e, per quanto se ne dice nel testo, era ancor viva nel 1322. Da Lodovico de Mons generò le due figlie Clemenza e Caterina: questa era la secondogenita, come risulta da un documento del 3 settembre 1298, con cui "Iohanna de Aquila, mulier relicta quondam Lodoyci de Montibus militis, nunc uxor Iacobi de Brussona militis, dilecti consiliarii, familiaris et fidelis" del re, impetra il regio assenso all'acquisto del feudo di Persano "nomine et pro parte Caterine filie secondogenite sue ex eodem Lodoyco premortuo viro suo" (Reg. ang. XCVIII, c. 23v). Secondo il Campanile, o. c., p. 115, Caterina andò sposa a Tommaso d'Aquino signore di Castiglione, figlio di quell'Adenolfo che ò già avuto occasione di nominare: cfr. n. 67. Che ciò sia impossibile mostra il fatto che il figlio del signore di Castiglione nacque certo dopo il 1304, mentre colei che il Campanile vorrebbe dargli per consorte era già morta nel 1322. Lo stesso autore conobbe una sola moglie di Tommaso II di Belcastro, Ilaria di Sus (pp. 114-5). (92) Scrivo così perché il Della Marra, mentre in un luogo (p. 50) dice che Ilaria era "vedoa di due mariti" quando sposò Tommaso, cioè di Filippo di Gianvilla conte di Santangelo e di Benedetto Gaetani conte palatino, in un altro (P. 363) asserisce che prima di quei due ella aveva sposato Eustasio di Sabran e poi Gentile di Sangiorgio; e tutti cinque i mariti, ultimo sempre il d'Aquino, le attribuisce anche altrove (Pp. 407-8). Lo Scandone riproduce solo la prima di queste notizie. (93) O. c., p. 50; vi è errato il nome del marito di Giovanna, che fu Ruggero e non Errico di Sanseverino. (94) Tav. XX. (95) O. c., P. 49. (96) Tommaso I, figlio di un Adenolfo, verso il 1260 successe insieme col fratello Adenolfo II nel dominio dei feudi paterni; nel 1282 è ricordato come uno dei famigliari del re; cadde prigioniero nella battaglia navale del 5 giugno 1284; alla morte (1292) del fratello, che non lasciò discendenti, gli subentrò nel possesso dei suoi beni e in particolare in quello della baronia di Geneocastro, che la comune genitrice aveva destinato al secondogenito. Morì tra il 22 gennaio e il 16 dicembre 1304, ed ebbe due mogli: prima (1270) una Isabella di Cariati, estinta da un pezzo nel 1284, in cui Tommaso era già passato alle seconde nozze con Filippa d'Aquino. Questa per semplice congettura lo Scandone credé (tav. XI) figlia di un Pandolfo di Filippo II signor di Roccasecca, e vedova di un precedente marito, di cui s'ignorerebbe il nome. È invece sicuro ch'ella sopravvisse parecchi anni a Tommaso: nel 1315 litigava col suo primogenito Tommaso II per l'assegnazione del dotario, ed è ancòra ricordata negli anni 1316, 'l7 e '22. Spigolo queste ultime notizie dallo Scandone, tavole XXVI e XXIX. (97) Tav. XXVI. (98) "Non esisté un'altra Giovanna, sorella di Adenolfo e figlia di Tommaso II, come suppone il Della Marra"; così è detto nella notizia di Tommaso III conte di Belcastro, tav. XXVII. (99) Su Landolfo III, abbiamo già detto. I due matrimoni di Guglielmo III Stendardo, primogenito del gran connestabile Guglielmo II e della sua seconda moglie, da cui fa lasciata al figlio la signoria di Calvi (Minieri Riccio, o. c., p. 245), sono registrati dal Della Marra, p. 404. Guglielmo fu donato di Casalnuovo in Capitanata da Carlo II, quindi fu ciambellano e consigliere di Roberto, e morì, pare, nel 1344. Le sue nozze con Angela d'Aquino son confermate dallo Scandobe, tav. XXI; ella appare già sposa nel 1343, vedova nel '44, morta a sua volta nel '45. (100) Questo sdoppiamento toglie di mezzo una grande difficoltà che lo Scandobe si era creato, pur rendendosene conto, con l'identificazione delle due Giovanne. Sappiamo che nel 1376 Errico di Sanseverino, primogenito di Giovanna d'Aquino, fu riconosciuto per successione materna conte di Belcastro e signore dei feudi di Barbaro, Roccasecca ed altri appartenuti al ramo dei d'Aquino dal quale era uscita sua madre (cfr. Scandobe, tavole XXVI-XXVII; Ammirato, o. c., p. 18); egli raccoglieva per tal modo l'eredità del conte Tommaso III morto appunto nel 1375 senza discendenti. Ora, il Sanseverino poté ottenere legalmente la successione solo come rappresentante di Giovanna, a cui quella sarebbe spettata di diritto perché zia di Tommaso III e figlia dell'altro Tommaso II che nel 1331 aveva ottenuto per il primo il titolo di conte di Belcastro; se invece Giovanna fosse stata, come vuole lo Scandobe, sorella anzi che figlia di Tommaso II, non avrebbe potuto mai subentrare, ella in persona o il figlio in sostituzione di lei, ai discendenti di un fratello. Lo Scandobe mostrò di avvertire la difficoltà quando scrisse che al figlio di Giovanna ricaddero tutti i feudi "insieme col titolo di "conte di Belcastro "sebbene questo fosse stato concesso ... al fratello di lei, Tommaso" (tav. XXVI). (101) La figlia di Tommaso I era nata certo qualche anno prima della fine del secolo XIII. Tommaso, infatti, ricordato a partire dal 1260 circa, doveva essere già sulla sessantina quando morì (1304). Di più, le sue nozze con Filippa d'Aquino, onde nacque Giovanna, erano avvenute prima del 1284; Tommaso II, altro frutto delle medesime, era già maggiorenne nel 1304. Di Giovanna non si trovano più notizie a partire dal 1328. (102) Queste parentele sono indicate all'evidenza dal seguente alberetto genealogico (103) Nell'Ameto (ediz. cit., p. 221) ell'è designata con quest'espressione veramente troppo sibillina: "dea, credo, di cento fiumi". Ammesso che il testo non sia corrotto, si potrà veder qui un più o meno cervellotico tentativo di etimologia (dal greco?) del nome di Caterina? L'artifizio non sconverrebbe al Boccacci. - A Caterina, in occasione del matrimonio con Tommaso d'Aquino, furono assegnate dal re come regalo di nozze 200 once d'oro: cfr. Minieri Riccio, o. c., p. 114. Disgraziatamente, la fonte di questa notizia, un Registro angioino segnato un tempo 'l310 H', è oggi smarrita; ciò che non ci permette di riscontrare il documento per precisarne la data: è tuttavia probabile che l'anno sia proprio quello stesso indicato nella segnatura antica, cioè il 1310. Nel qual caso il largitore di così cospicuo dono sarebbe stato appunto il re Roberto, il futuro amante della bella francese. (104) La famiglia a cui ella apparteneva era oriunda della Francia del Sud o di quella del Nord? Il cognome "de Mons" mi fa pensare di preferenza a quest'ultima derivazione. Il Crescini asseri invece (o. c., p. 38) che la madre di Fiammetta "era di famiglia provenzale", perché in un passo dell'Ameto, da me riferito qui addietro), ella è detta "venuta di quelle parti" d'onde erano venuti i predecessori di re Roberto. Ma che questo luogo sia pel Boccacci la Provenza, mi par molto discutibile; se Carlo d'Angiò dalla contea di Provenza era passato al soglio napoletano, l'origine della sua famiglia non era davvero provenzale. Nel passo ricordato non è ben chiaro che cosa si debba intendere per "togata Gallia": potrebb'essere designata così la Francia in genere. Ricordiamoci ancòra che Caleone-Giovanni dice a Fiammetta d'essere nato "non molto lontano a' luoghi, onde trasse origine la sua madre" (Ameto, p. 225): Parigi, dunque, non molto lontana dalla Provenza? Sembra un po' difficile convenire in ciò col Crescini. La cui asserzione à però fatto testo per molti, così che oggi vediamo correntemente chiamata provenzale la genitrice della d'Aquino. (105) Cfr. qui, n. 40. (106) Nel 1326 egli fu dal padre condotto seco a Firenze (Scandone, tav. XXVII): doveva esser dunque entrato nell'adolescenza. Ebbe un figlio, Tommaso III, già nato nel 1337; Isabella d'Apia sua moglie (☨ 14 luglio 1375) si rimaritò il 28 luglio di quell'anno con Drogone de Merlot; nel dicembre 1340, vedova un'altra volta, passò a terze nozze con Raimondo del Balzo conte di Soleto e gran maresciallo del Regno (cfr. Campanile, o. c., pp. 152-4; Della Marra, pp. 72-3). Adenolfo dové morire, perciò, almeno un anno prima del luglio 1337. (107) Cfr. nota 50 (108) Su lui si veda Scandone, tav. XXVII. Nel febbraio 1335 era già ciambellano e famigliare del re. Il 1° marzo 1336 gli fu concesso il feudo di Pontelandolfo; il padre gli lasciò, morendo, quelli di Venamaggiore e Ponte Albaneto. Nel 1339 fu giustiziere di Principato Ultra e nell'anno successivo di Capitanata. Morì il 22 settembre 1342 e fu sepolto a Napoli in San Domenico Maggiore. Aveva sposato (1337) Filippa di Lagonessa, da cui ebbe un figlio di nome Tommaso, ricordato nel 1344 e nel '52, e morto senza posterità innanzi al cugino Tommaso III nato da Adenolfo. (109) Fiordellaltre di Fallucca o di Foloch, signora della baronia di Barbaro, fu la moglie di Adenolfo d'Aquino avolo di Tommaso II conte di Belcastro (110) Se la testimonianza ch'è possibile ricavare dalla Fiammetta, ove si parla di sorelle di lei, in genere, è esatta (cfr. qui, n. 50), bisognerà credere che di una o più femmine nate da Tommaso e da Caterina sia andato perduto il ricordo. (111) La morte non dové avvenire molti mesi innanzi all'8 giugno 1322, data del documento riferito nella n. 91. Da questo apprendiamo che Caterina portò al marito una dote di 1000 once d'oro, che era ragguardevolissima per quei tempi; ricorderò che la Giovanna d'Aquino sorella di Tommaso II ne ebbe sole 360. L'età della madre di Fiammetta, che non aveva trent'anni quando morì, si ricava dalla data del matrimonio di Lodovico de Mons con Giovanna dell'Aquila (cfr. la n. testé citata) e dal fatto ch'ella fu la secondogenita. Sarà dunque nata nel 1292 o '93, ed era sulla ventina quando la sua bellezza richiamò su di sé l'attenzione del sovrano. (112) Cfr. qui, n. 46. (113) Reg. ang. CCLXVI, c. 13 v; v'è detto espressamente che Tommaso "suum diebus proximis legitime condidit testamentum et ultra illud certos codicillos adiecit". Nel novembre 1326 egli era già tornato nel Regno: Scandobe, tav. XXVII. (114) È quindi facile che questo sia il monastero a cui Tommaso affidò Giovanna; almeno, questa supposizione à qualche fondamento più che quella per cui si vorrebbe vedere indicato, nel racconto di Fiammetta, il convento di Sant'Arcangelo a Baiano (cfr. quin. 47). (115) Ameto, p. 223. (116) Sui suoi ascendenti si veda Ammirato, o. c., pp. 9-10; Campanile, o. c., p. 93. (117) Il Boccacci dice (Ameto, p. 223) che prima Fiammetta respinse la domanda del "pronto giovane", il quale allora si rivolse al conte di Belcastro ("a colui che forse sua figliuola la reputava") e da lui ottenne il desiderato consenso. (118) Dal Della Marra (o. c., p. 426) apprendiamo che nel 1335 Caterina principessa di Taranto, la quale s'intitolava imperatrice di Costantinopoli, disposava ad Errico la sua pupilla Caterina, orfana di Adamo visconte di Lautrec e di Tremblaie; questo non ci obbliga, naturalmente, a pensare che in quell'anno il fidanzato fosse in età da consumare il matrimonio: egli, al contrario, poteva avere al massimo un lustro di vita. Ignoro se più tardi le nozze furono realmente celebrate. La notizia del 1349 si trova presso Scandobe, tav. XXVI. (119) Priusquarn insigniretur . . . titulo comitatus", com'è detto in un documento (Reg. ang,. CCCXXI, c. 571), (120) La Collatio quam fecit illustrissimus rex Ierusalem et Sicilie quando dominum Rogerium de Sancto Severino comitatus Mileti honore et titulo insignivit si trova, in mezzo ad altri Sermones di Roberto, in alcuni manoscritti: cfr. W. Goetz, König Robert von Neapel (1309-1343), seine Persönlichkeit und sein Verhältnis zum Humanismus, Tübingen 1910, p. 58, n° 183. Nessuna indicazione del contenuto ci permette di stabilire l'anno in cui fu concesso il titolo comitale a Ruggero. (121) Questi ereditò i feudi paterni e nel 1376, dopo la morte di Tommaso III conte di Belcastro suo cugino, ottenne anche, in sostituzione della madre defunta, di succedergli; cfr. qui, n. 100. L'Ammirato dice invece (o. c., p. 18) che nel settembre 1376 la regina Giovanna donò ad Errico la contea di Belcastro. (122) Errico e il secondogenito Giovanni di Sanseverino, nati "ex condam nobili muliere Iohanna de Aquino", appaiono in un documento del 29 aprile 1346 (Reg. ang. CCCXLVIII, c. 107 r); Giovanni morì innanzi al 16 gennaio 1349, poiché sotto questa data si trovano ricordati come figli del conte Ruggero il solo Errico e le sorelle Ilaria e Margherita (Reg. ang. CCCLVI, e. 10 r). (123) Secondo lo Scandone, tav. XXVI, tanto Margherita che Ilaria erano nate da un precedente matrimonio di Ruggero; ma ciò contrasta con una notizia che l'Ammirato riporta (p. 17) facendo intendere di averla desunta dal testamento del conte di Mileto, che cioè Giovanna d'Aquino fu la madre così di quelle due femmine come dei maschi Errico e Giovanni. L'opinione dello Scandobe, non poggiata su alcuna attestazione documentaria, dipende evidentemente dal fatto ch'egli diede come terza moglie a Tommaso II di Belcastro, padre della Fiammetta, quella Costanza di Sangineto, che sembra nata dal matrimonio d'Ilaria di Sanseverino (la figlia del conte Ruggero) con Filippo II di Sangineto: importava dunque che Ilaria stessa fosse fatta nascere da una donna diversa da Giovanna, per evitare che ad un bisavolo fosse attribuita in moglie la pronipote. Ma io ò già mostrato qui (vedi n. 88) che la questione va risolta in un altro modo. Quanto al testamento del conte di Mileto, che fu fatto a Napoli il 18 febbraio 1365, mi sarebbe piaciuto di raffrontarlo con la menzione dell'Ammirato, ma pur troppo m'è stato irreperibile. (124) Reg. ang. CCCXXI, c. 57 r. (125) Reg. ang. CCCXXV, c. 59 v: per la recente morte di Cristoforo d'Aquino (sul quale v. n. 108) balio e tutore "nobilis infantis Thomaselli de Aquino comitis Bellicastri pupilli" il medesimo ufficio è affidato a Berardo d'Aquino conte di Loreto e alla "nobili mulieri ... de Aquino comitisse Mileti" (la lacuna si trova tal quale nel documento). (126) L'Ammirato (o. c., p. 17), riportando l'epigrafe, stampò inesattamente MeccLxv invece di mcccxlv; lo Scandobe sbaglia al contrario il giorno (die iii). (127) Al sarcofago della contessa di Mileto fa riscontro quello, sullo stesso disegno, di suo fratello Cristoforo d'Aquino; entrambe sono opera di marmorari napoletani ispirantisi, per quanto era possibile, alle toscane eleganze del senese Tino di Camaino e dei fratelli Giovanni e Patio da Firenze (cfr. A. Venturi, Storia dell'arte italiana, IV, Milano 1906, pp. 313-5). Un po' più recente è un terzo monumento funerario esistente nella stessa cappella, il quale chiude le ossa di Tommaso III d'Aquino conte di Belcastro, il nipote della Fiammetta; è posto sotto quello di Cristoforo e consta della sola bara marmorea, che poggia sopra un gradino pure marmoreo. (128) Cfr. Ammirato, p. 17. (129) Si veda il Chronicon de rebus in Apulia gestis di notar Domenico da Gravina, edizione di A. Sorbelli nei R. I. SS.2, XII, M, p. 6; Della Marra, o. c., p. 287. (130) Ciò apprendiamo da notar Domenico; cfr. l'ediz. cit., p. 162. (131) Vedi nota 123 (132) Geneal. deorum, XIV, 9; cfr. Hecker, o. c., p. 218, 1. 21 e sgg. (133) Da Tommaso II di Sanseverino conte di Morsico nacquero Errico, primogenito, che premorì al padre, e Iacopo conte di Tricarico; di Errico furon figli Tommaso III, conte di Morsico dopo l'avo, e il nostro conte di Mileto (134) Cfr. Hortis, o. c., pp. 289-91. EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Zeitschrift für romanische Philologie", fortgeführt und herausgegeben von Dr. Ernst Hoepffner, XXXVI. BAND., Halle A. S. Max Niemeyer, Brüderstrasse 6, 1912 ( Vedi ) |
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