Giovanni Boccaccio - Opera Omnia >>  Rime




 

ilboccaccio testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere storiche in prosa e versi, giovanni bocaccio, boccacio, operaomnia #


PARTE PRIMA


I


Intorn'ad una fonte, in un pratello
di verdi erbette pieno e di bei fiori,
sedean tre angiolette, i loro amori
forse narrando, e a ciascuna 'l bello

viso adombrava un verde ramicello
ch'i capei d'or cingea, al qual di fuori
e dentro insieme i dua vaghi colori
avolgeva un suave venticello.

E dopo alquanto l'una alle due disse
(com'io udi'): «Deh, se per avventura
di ciascuna l'amante or qui venisse,

fuggiremo noi quinci per paura?».
A cui le due risposer: «Chi fuggisse,
poco savia saria, cotal ventura!».


II


All'ombra di mill'arbori fronzuti,
in abito leggiadro e gentilesco,
con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco
lacci tendea, da lei prima tessuti

de' suoi biondi capei crespi e soluti
al vento lieve, in prato verde e fresco,
una angiolella; a' quai giungeva vesco
tenace Amor, e ami aspri e acuti.

Da' quai, chi v'incappava lei mirando,
invan tentava poi lo svilupparsi,
tant'era l'artificio che i teneva.

E io lo so, che me di me fidando
più che 'l dovere, infra e lacciuoli sparsi
fui preso da virtù ch'io non vedeva.


III


Il Cancro ardea, passata la sest'ora,
spirava zefiro e il tempo era bello,
quieto il mar, e in su' lito di quello,
in parte dove il sol non era ancora,

vid'io colei, che 'l ciel di sé innamora,
e'n più donne far festa: e l'aureo vello
le cingea 'l capo in guisa che capello
del vago nodo non usciva fuora.

Neptuno, Glauco, Forco e la gran Teti
dal mar lei riguardavan sì contenti,
che dir parevon: «Giove, altro non voglio».

Io, da un ronchio, fissi agli occhi lieti
sì adoppiati aveva e sentimenti,
ch'un sasso paravamo io e lo scoglio.


IV


Guidommi Amor, ardendo ancora il sole,
sopra l'acque di Giulio, in un mirteto,
e era il mar tranquillo e il ciel quieto,
quantunque alquanto zefir, come suole,

movesse agli arbuscei le cime sole:
quando mi parve udire un canto lieto
tanto, che simil non fu consueto
d'udir già mai nelle mortali scuole.

Per ch'io: «Angela forse, o ninfa, o dea
canta con seco in questo loco eletto»,
meco diceva, «degli antichi amori».

Quinci madonna in assai bel ricetto
del bosco ombroso, in su l'erbe e in su' fiori,
vidi cantando, e con altre sedea.


V


Non credo il suon tanto soave fosse
che gli occhi d'Argo tutti fé dormire,
né d'Anfion la citara a udire
quando li monti a chiuder Tebe mosse,

né le sirene ancor quando si scosse
invano Ulisse provido al fuggire,
né altro, se alcun se ne può dire
forse più dolce, o di più alte posse:

quant'una voce ch'io d'un'angioletta
udi', che lieta i suoi biondi capelli
cantand'ornava di frond' e di fiori.

Quindi nel petto entrommi una fiammetta,
la qual, mirando li sua occhi belli,
m'accese il cor in più di mill'ardori.


VI


Su la poppa sedea d'una barchetta,
che 'l mar segando presta era tirata,
la donna mia con altre acompagnata,
cantando or una or altra canzonetta.

Or questo lito e or quest'isoletta,
e ora questa e or quella brigata
di donne visitando, era mirata
qual discesa dal cielo una angioletta.

Io, che seguendo lei vedeva farsi
da tutte parti incontro a rimirarla
gente, vedea come miracol nuovo.

Ogni spirito mio in me destarsi
sentiva, e con amor di commendarla
sazio non vedea mai il ben ch'io provo.


VII


Chi non crederrà assai agevolmente,
s'al canto d'Arion venne il delfino
faccendo sé al suo legno vicino,
al suo comando presto e ubidiente,

che, solcando costei il mar sovente
in breve barca, nel tempo più fino,
alla voce del suo canto divino
molti ne venghin desiosamente?

E quas'a ciò da Nettunno mandati
circondan quella, e ogni cosa sinestra
cacciando indrieto, e onde e tempestate.

O orecchi felici, o cuor beati,
a' quali è la fortuna tanto destra,
che d'ascoltarla fatti degni siate!


VIII


Quel dolce canto col qual già Orfeo
Cerbero vinse e il nocchier d'Acheronte,
o quel con ch'Anfion dal duro monte
tirò li sassi al bel muro dirceo;

o qual d'intorn'al fonte pegaseo
cantar più bel color che già la fronte
s'ornar d'alloro, con le Muse conte
uomo lodando o forse alcuno deo:

sarebbe scarso a commendar costei,
le cui bellezze assai più che mortali
e i costumi e le parole sono.

E io presumo in versi diseguali
di disegnarle in canto senza suono!
Vedete se son folli i pensier miei!


IX


Candide perle, orientali e nuove,
sotto vivi rubin chiari e vermigli,
da' quali un riso angelico si muove
che sfavillar sotto due neri cigli

sovente insieme fa Vener e Giove,
e con vermiglie rose i bianchi gigli
misti fa il suo colore in ogni dove,
senza che arte alcuna s'assottigli:

i capei d'oro e crespi un lume fanno
sovra la lieta fronte, entr'alla quale
Amore abbaglia della maraviglia;

e l'altre parti tutte si confanno
alle predette, in proporzion eguale,
di costei ch'i ver angioli simiglia.


X


Se bionde treccie, chioma crespa e d'oro,
occhi ridenti, splendidi e soavi,
atti piacevoli e costumi gravi,
sentito motteggiare, onesto e soro

parlar in donna, com'in suo tesoro,
pose natura mai o finser savi:
tutt'è 'n costei, Amor, in cui le chiavi
delle mia pene desti e del ristoro.

Dunque, se io sovente ne sospiro,
non mi riprenda chi la mia speranza
non vede posta in premio del martiro.

Questa li mia pensier urge e avanza
con gli occhi sua a sì alto desiro,
che nulla più sentir have 'n possanza.


XI


Quella splendida fiamma, il cui fulgore
m'aperse prima l'amorosa via,
m'incende sì, qualor l'anima mia
vola colà dove la chiama Amore,

che 'l troppo lume el debile valore
degli occhi abbaglia sì, che la si svia
dal debito sentier, e dove sia
né sa, né vede, d'ogni ragion fuore.

E mentre cosl erra tremebonda,
fa di me rider chi allor mi vede,
e tal fiata alcun muove a pietate.

Laonde segue che 'l desio, ch'abbonda,
discuovre ciò che nasconder si crede
la disviata fuor di libertate.


XII


Quell'amorosa luce, il cui splendore
per li miei occhi mise le faville,
che dentr'al cor andando a mille a mille,
di lei la forma e la luce d'Amore,

questa per donna e colui per signore,
lasciaronvi, non posson le pupille
soffrir talor per l'acute postille
ch'accese vengon più del suo valore.

Onde, contra mia voglia, s'io non voglio
lei riguardando perder di vederla,
in altra parte mi convien voltare.

O grieve caso ond'io forte mi doglio:
colei, cui cerco di veder poterla
sempre, non posso poi lei riguardare!


XIII


Il folgor de' begli occhi, el qual m'avampa
il cor qualor io gli riguardo fiso,
m'è tanto nella mente, ov'io l'ho miso
spesso, segnato con eterna stampa,

ch'invan, caro signore, ogn'altra vampa
ver me saetti del tuo paradiso:
questo m'allegra, questo m'ha conquiso,
questo m'uccide, questo ancor mi scampa.

Dunque, ti prego, al tuo arco perdona,
e bastiti per una avermi preso,
ch'assai è gran legame questo e forte;

e mentre 'l tuo valor la sua persona
farà più bella, sì com'è testeso,
mai non mi scioglierà se non la morte.


XIV


Il gran disio che l'amorosa fiamma
nel cuor m'accese nei miei miglior anni,
e tiene ancor crescendo ciascun giorno
e terrà forse insino a l'ultim'ora,
tolto ha da me ciascun altro desire:
e com' li piace mi si fa seguire.
* * * * * * * * * * * * *


XV


Mai non potei, per mirar molto fiso
i rossi labri e gli occhi vaghi e belli,
il viso tutto e gli aurei capelli
di questa, che m'è in terra un paradiso,

nell'intelletto comprender preciso
qual più mirabil si fosse di quelli:
come ch'io stimo di preporre ad elli
l'angelico leggiadro e dolce riso.

Nel qual, quando scintillan quelle stelle
che la luce del ciel fanno minore,
par s'apra il cielo e rida il mondo tutto.

Ond'io, che tutto 'l cor ho dritto a quelle,
esser mi tengo molto di megliore,
sentend' in terra sì celeste frutto.


XVI


Le parole soave e 'l dolce riso,
la treccia d'oro, che 'l cor m'ha legato
e messo nelle man che m'hanno ucciso
già mille volte e 'n vita ritornato

di nuovo, m'hanno sì 'l petto infiammato,
che tutto il mio desire al vago viso
rivolto s'è, e altro non m'è grato
che di vederlo e di mirarlo fiso.

In quel mi par veder quant'allegrezza
che fa beati gli occhi de' mortali,
che si fan degni d'eterna salute.

In quel risplende chiara la bellezza
che 'l ciel adorna e che n'impenna l'ali
a l'alto vol con penne di virtute.


XVII


Spesso m'avvien ch'essendom'io raccolto
co' miei pensier, partito dalla gente,
senza donde veder, nella mia mente
sen vien colei nel cui celeste volto

la mia salute sta, e che disciolto
ne' legami d'amor soavemente
con gli occhi sua mi pose, e lietamente
a sé tir'ogni spirto altrove volto.

Poi, ragionand'allor, fa riguardare
la sua virtù, la bellezza e 'l valore,
di quai più ch'altra l'ha dotata Dio;

dond'un piacer mi nasce, el qual mi pare
che rechi seco ciò che puote Amore,
e sol accenda a ben far il disio.


XVIII


Com'io vi veggo, bella donna e cara,
così mi sento per gli occhi passare
una soavità, la qual mi pare
che del cor cacci ogni passione amara,

e pongavi un desio, el qual rischiara
ogni pensier turbato e che stimare
mi fa voi di bellezza trapassare
al mond'ogn'altra, sola, unica, o cara.

E quivi lodo la fortuna mia
e Amor che a voi mi fé subbietto,
come m'apparve la vostra figura.

Né più oltre la mia mente desia,
che di poter con onestà diletto
prestar a così bella creatura.


XIX


Con quanta affezion io vi rimiri,
a voi non posson celar gli occhi miei,
li quai de' vostri, sì com'io vorrei,
credon, quei riguardando, trar sospiri,

che portin pace a ben mille martiri,
che nascon del desio, ch'io non potei
quel dì frenar, ch'è arbitrio delli dei,
d'entrar per voi negli amorosi giri.

E se quei, che nel mio petto portaro
con amore speranza, non mi sono
benigni, da cui dunque aspetto pace?

Io non dimando al vostro onor contraro,
ma mi facciate d'un sospiro dono,
il qual mitighi il foco che mi sface.


XX


Sì dolcemente a' sua lacci m'adesca
Amor, con gli occhi vaghi di costei,
che, quanto più m'allontano da lei,
più vi tira 'l desio e più l'invesca:

per ch'io non veggio come mai me n'esca,
e certo riuscirne non vorrei,
tanto contenta tutti e desir miei
i suoi costumi e l'onestà donnesca.

Chi vuol si doglia e piangasi d'Amore,
ch'io me ne lodo per insino ad ora,
se più non m'arde il caro signor mio;

e benedico quel vago splendore
che 'l cor sì dolcemente m'innamora,
allumandomi sì, ch'io son più ch'io.


XXI


Biasiman molti spiacevoli Amore
e dicon lui accidente noioso,
pien di spavento, cupido e ritroso,
e di sospir cortese donatore.

Né vede di costoro il cieco errore
come proceda il suo valor nascoso,
nell'uom prudente giusto ed animoso,
a, per bene operar, volere onore.

Come costui nell'anima gentile
pronto si pon per valoroso obbietto,
così la rende cortese e umile.

Ornarsi di costumi è 'l suo diletto;
fugge come nimico ogn'atto vile:
chi dunque de cessar starli subbietto?


XXII


Amor, che con sua forza e virtù regna,
nel summo cielo ardendo sempre vive
e l'anima gentil di lui fa degna,

regge mia vita e quel che la man scrive,
dimostra el cuor divoto a sua deitade
e del suo regno el fa ministro e cive.

Amor vol fede e con lui son legade
speranza con timor e gelosia,
e sempre con leanza umanitade.

Unde sovente per Rachele a Lia
fa star suggetta l'anima servendo
con dolce voglia e con la mente pia.

Così si pasce, di sua fiamma ardendo,
il cuor che onestamente Amor nutrica,
con sua vaghezza nei suspir languendo.

Supporta angosia in pace e gran fatica
per conservar della sua cara amata
el digno onor e la sua fiamma antica.

Amor è come gemma in or legata,
che mai non perde sua gentil natura,
ma più lucente è sempre e più preziata.

Non è, come altrui pinge sua figura,
crudele, iniusto, faretrato e nudo,
né ha de' suoi suggetti poca cura;

anzi è di vera pace eterno scudo,
vestito de virtute e gentilezza,
ma, contra ogni lascivo, alpestro e crudo;

né senza il suo bel lume alcuna altezza
in ciel fia digna o nel terrestre mondo,
né val di donna, senza lui, baldezza.

Amor fa con audacia l'uom facondo,
cortese, umano, e di costumi ornato,
e 'l cuor dov'el si possa fa iocundo.

Premio non cerca, regni o alto stato,
ma sol bontate e un disio amoroso,
con pura fede, l'uno e l'altro amato.

Onesta leggiadria, un cuor vezzoso,
un parlar dolce, un animo sincero,
un vago remirar tutto piatoso

son le catene und'el si fa mainero;
nel foco ardente e' con dolcezza abrusa
temprando sue saette e l'arco fiero.

De lui presumo in questa mia confusa
e bassa rima le sue laude alzare,
se 'l suo favor alla mia debil musa

porgendo mi farà di lui cantare.


XXIII


Questo amoroso fuoco è sì soave,
che tuttora ardo e parmi crescer vita;
ma vedo ben che, se 'l ciel non m'aita,
rotta è fra duro scoglio la mia nave.

Tal mi tien chiuso sotto a mille chiave,
che, con sua faccia angelica e polita,
or pena eterna or dolcezza infinita
mi mostra, or m'assicura or mi spave.

Così del mio fin dubio ardendo spero
nel fuoco rinovar come fenice,
e questo d'ogni doglia è medicina.

Né posso, mio giudicio, dir con vero
che per cosa terrena esser felice
io cerchi, ma d'effigie alta e divina.


XXIV


Quello spirto vezzoso, che nel core
mi misero i begli occhi di costei,
parla sovente con meco di lei
leggiadramente, e simile d'Amore.

E poi del suo animoso fervore
una speranza crea ne' pensier miei,
che sì lieto mi fa, ch'io mi potrei
beato dir s'ella stesse molt'ore.

Ma un tremor, da non so che paura
nato, lo scaccia e rompe in mezzo il porto,
ch'aver preso credea, di mia salute;

e veggio aperto ch'alcun ben non dura
lunga stagione in questo viver corto,
quantunque possa natural virtute.


XXV


Quante fiate per ventura il loco
veggio là dov'io fui da Amore preso,
tanto mi par di nuovo esser acceso
da un desio più caldo assai che 'l foco;

e poi che quello ho riguardato un poco
e stato alquanto sovra me sospeso,
dico: «Se tu ti fosse qui difeso,
non sarest'or, per merzé chieder, fioco.

Adunque piangi, poi la libertate
avevi nelle man lasciat' hai andare
per donna vaga e di poca pietate».

Poi mi rivolgo, e dico che lo stare
subbietto a sì mirabile biltate
è somma e lieta libertate usare.


XXVI


« A quella parte ov'io fui prima accesa
del piacer di colui, che mai del core
non mi si partirà, sovente Amore
mi tira, né mi vale il far difesa.

Quindi rimiro lui, tutta sospesa,
in giù e 'n su, pregandol, se 'l valore
suo sempre cresca, che 'l vago splendore
mi mostri del mio ben, che m'ha sì presa.

Il qual s'avvien che io veggia per grazia,
contenta dentro mi ritraggo un poco,
lodando Iddio, Amore e la fortuna;

e mentre che d'averlo visto sazia
esser mi credo, raccender il foco
sento di rivederlo e torno in una».


XXVII


Quando s'accese quella prima fiamma
dentro da me, che 'l cor mi munge e arde,
io solia dir talor: «Questa non arde
come suol arder ciascun'altra fiamma;

anzi conforta, sospigne e infiamma
a valor seguitar chiunque ella arde:
per che de esser contento, in cui ella arde,
di più fin divenir in cotal fiamma».

Ma il cor, già carbon fatto in questo foco,
senza pace sperar, in tristo pianto,
ha mutata sentenzia e chiede morte.

E non trovando lei in cotal foco,
ora rovente e or bagnato in pianto,
si sta in vita assai peggior che morte.


XXVIII


Misero me, ch'io non oso mirare
gli occhi ne' quali stava la mia pace;
però che, come il ghiaccio si disface
al sol, così mi sento il cor disfare

per soverchio disio nel riguardare:
e s'altro miro, tanto mi dispiace,
ch'un gel noioso vienmi, il qual mi face
di morte spesse volte dubitare.

Tra questi estremi sto, né so che farmi:
o arder tutto, lor mirando fiso,
o di freddo morire, altro guardando.

L'un mi duol men, ma troppo grave parmi
da cui salute spero esser ucciso,
e più duro mi par morir guardando!


XXIX


S'io ti vedessi, Amor, pur una volta
l'arco tirar e saettar costei,
forse ch'alcuna speme prenderei
di pace, ancor, della mia pena molta;

ma perché baldanzosa, lieta e sciolta
la veggio e te codardo in ver di lei,
non so ben da qual parte i dolor miei
s'aspettin fine, o l'anima ricolta.

Ogni suo atto impenna un de' tuo' strali;
che diss'io un? ma cento: e il tuo arco
ognor a trapassar mi par più forte.

Vedi ch'io son senz'armi, diseguali
al poter tuo, e, se non chiudi il varco,
l'anima mia, ch'è tua, sen vol'a morte.


XXX


Trovato m'hai, Amor, solo e senz'armi
là dove più armato e avveduto
sei, credo, per uccidermi venuto,
col favor di costei, ch'in disertarmi

aguzza le saette che passarmi
deono il cor; ma, poi che fia saputo,
certo son, ne sarai da men tenuto
d'aver voluto pur così disfarmi.

Poco onor ti sarà, s'io non m'inganno,
ferir, vincer, legar, uccider uno
che far non puote in ver di te difesa.

Ma tu, che ad onor rispetto alcuno
non avesti giammai, del mio gran danno
ti riderai, e io m'avrò l'offesa.


XXXI


«Che fabrichi? che tenti? che limando
vai le catene, in che tu stesso entrasti»,
mi dice Amore, «e te stesso legasti
senza mio prego e senza mio comando?

Che latebra, che fuga vai cercando
di drieto a me, al qual tu obligasti
la fede tua, allor che tu mirasti
l'angelica bellezza desiando?

O stolte menti, o animali sciocchi!
poi che t'avrai co' tua inganni sciolto
e volando sarai fuggito via,

una parola, un riso, un muover d'occhi,
un dimonstrarsi lieto il vago volto
farà tornarti più stretto che pria».


XXXII


Pallido, vinto e tutto transmutato
dallo stato primier quando mi vede
la nemica d'amore e di mercede,
nelle cui reti son preso e legato,

quasi di ciò che io ho già contato
del suo valor prendendo intera fede,
lieta più preme il cor che la possede,
indi sperando nome più pregiato.

Ond'io stimo che sia da mutar verso,
pur ch'Amor mel consenta, e biasimare
ciò che io scioccamente già lodai.

Forse diverrà bianco il color perso,
e per lo non ben dir potrò impetrare,
per avventura, fine alli mia guai.


XXXIII


Come in sul fonte fu preso Narcisso
di sé da sé, così costei, specchiando
sé, sé ha preso dolcemente amando.
E tanto vaga se stessa vagheggia,
che, ingelosita della sua figura,
ha di chiunque la mira paura,
temendo sé a sé non esser tolta.
Quel che ella di me pensi, colui
sel pensi che in sé conosce altrui.
A me ne par, per quel ch'appar di fore,
qual fu tra Febo e Danne, odio e amore.


XXXIV


Quando poss'io sperar che mai conforme
divegna questa donna a' desir miei?
ch'ancor con prieghi impetrar non potei
dal sonno, monstrator di mille forme,

ch'in sogn'almen dov'ella lascia l'orme
mi dimonstrasse: e contento sarei,
poi ch'io non posso più riveder lei,
che crudel cerca, lasso! in terra porme.

Allora certo, quando torneranno
li fiumi a' monti, e i lupi l'agnelle
dagli ovil temorosi fuggiranno.

Dunque uccidimi, Amore, acciò che quelle
luci, che fur principio del mio danno,
del morir mio ridendo sien più belle.


XXXV


Se quella fiamma che nel cor m'accese
e or mi sface in doloroso pianto,
fosse ver me pietosa pur alquanto,
e del monstrarsi un poco più cortese,

ancora spererei trovar difese
alla mia vita, che m'è in odio tanto,
e' sospir grevi rivolger in canto
e poter perdonar le fatte offese.

Ma perché, come Febo fuggì Dane,
così costei d'ogni parte mi fugge
e niega agli occhi miei il suo bel lume,

troppo invescata in l'amorose pane
la vita mia cognosco che si strugge,
e 'l cor diventa di lagrime fiume.


XXXVI


Scrivon alcun Partenopè, sirena
ornata di bellezze e piena d'arte,
aver sua stanza eletta in questa parte
tra il coll'erboso e la marina rena,

e qui lasciat'ancor d'età non piena
le membra sua, che or son cener sparte,
e il nome suo in più felice carte
e in questa terra fertile e amena.

E com'a le' fu il ciel mite e benigno,
così alle poi nate par che sia:
e io, miser a me, sovente il provo,

veggendo bella la nemica mia
vincer ogni mia forza col suo ingegno,
ver me monstrando sempre sdegno novo.


XXXVII


Vetro son fatti i fiumi e i ruscelli
gli serra di fuor ora la freddura;
vestiti son i monti e la pianura
di bianca neve e nudi gli arbuscelli,

l'erbette morte, e non cantan gli uccelli
per la stagion contraria a lor natura;
Borea soffia, e ogni creatura
sta chiusa per lo freddo ne' sua ostelli.

E io, dolente, solo ardo e incendo
in tanto foco, che quel di Vulcano
a rispetto non è una favilla;

e giorno e notte chiero, a giunta mano,
alquanto d'acqua al mio signor, piangendo,
né ne posso impetrar sol una stilla.


XXXVIII


Pervenut'è, insin nel secul nostro,
che tante volte il cuor di Prometeo
con l'altre parti dentro si rifeo,
di quante se ne pasce un duro rostro;

il che parria forse terribil mostro,
se non fesse di me simil trofeo
sovent'Amor, ch'a scriverlo poteo
far del mio lagrimar penna e inchiostro.

Io piango, e sento ben che 'l cor si sface;
e allor, quand'egli è per venir meno,
debile, smunto e punto per l'affanno,

o Dio! nascoso sento che 'l riface
el mio destin: laonde eterne fieno
le pene che mi disfano e rifanno.


XXXIX


Sì tosto come il sole a noi s'asconde
e l'ombra vien, che 'l suo lume ne toglie,
ogn'animale in terra si racoglie
al notturno riposo, insin che l'onde

di Gange rendon con le chiome bionde
al mondo l'aurora, e le lor doglie,
i duri affanni e l'amorose voglie
soave sonno allevia o le confonde.

Ma io, come si fa il ciel tenebroso,
sì gran pianto per gli occhi mando fore,
che tant'acqua non versan dua fontane;

né dormir, né speranza alcun riposo
posson prestare al mio crudel dolore:
così m'affligge Amor fin la dimane.


XL


Chi nel suo pianger dice che ventura
avversa gli è al suo maggior disio,
e chi l'appone scioccamente a Dio,
e chi accusa Amore e chi la dura

condizion della donna che, pura,
forse non sente l'appetito rio,
e chi del cielo fa ramarichio,
non conoscendo sé, di sua sciagura.

Ma io, dolente, solo agli occhi miei
ogni mia doglia appongo, che fur porte
all'amorosa fiamma che mi sface.

Se stati fosser chiusi, ancor potrei
signor di me contrastar alla morte,
la qual or chiamo per mia dolce pace.


XLI


Cesare, poi ch'ebbe, per tradimento
dell'egizian duttor, l'orrate chiome,
rallegrossi nel core, e'n vista come
si fa qual che di nuovo è discontento.

E allora ch'Annibal ebbe 'l presento
del capo del fratel, ch'aveva nome
Asdrubal, ricoprì suo grave some
ridendo alla suo gente, ch'era in pianto.

Per somigliante ciascun uom tal volta
per atto allegro o per turbato viso
mostra 'l contrario di ciò che 'l cor sente.

Però, s'i' canto e ne dimostro riso,
fo per mostrare a chi mi mira e ascolta
ch'ai dolor gravi i' sia forte e possente.


XLII


Se Zefiro omai non disacerba
il cor aspro e feroce di costei,
più mai non spero, per cridar omei,
trovar riposo a la mia pena acerba.

Ma, sì com'el rinnova i fiori e l'erba
e piante state morte mesi sei,
così porria far dolc'e verde lei,
pietosa in vista, in fatti men superba.

Questa speranza sola ancor mi resta,
per la qual vivo, ingagliardisco e tremo
dubbiando che la morte non me invole.

Ond'io, prima che venga al punto estremo,
fortuna prego non me sia molesta
cotanto ai piacer mei quanto la suole.


XLIII


L'alta speranza, che li mia martiri
soleva mitigare alcuna volta,
in noiosa fortuna ora rivolta
de' dolci mia pensier fatt'ha sospiri.

E gli amorosi e caldi mia desiri,
lacrime divenuti, la raccolta
rabbia per gli occhi fuor dal cor disciolta
. . . . . . . . . .

Oh, s'io potesse creder di vedere
canuta e crespa e pallida colei,
che con isdegno nuovo n'è cagione!

Ch'ancor la vita mia di ritenere,
che fugge, a più poter m'ingegnerei,
per rider la cambiata condizione.


XLIV


S'egli avvien mai che tanto gli anni miei
lunghi si faccin, che le chiome d'oro
vegga d'argento, ond'io or m'innamoro,
e crespo farsi il viso di costei,

e cispi gli occhi bei, che tanto rei
son per me lasso, e il caro tesoro
del sen ritrarsi, e il suo canto sonoro
divenir roco, sì com'io vorrei:

ogni mio spirto, ogni dolore e pianto
si farà riso, e pur sarò sì pronto
ch'io dirò: «Donna, Amor non t'ha più cara,

più non adesca il tuo soave canto,
pallid'e vizza non sei più in conto:
ma pianger poi l'essere stata avara».


XLV


«O iniquo uomo, o servo disleale,
di che ti duol? di che vai lagrimando?
di che Amor e me vai biasimando
quasi cagion del tuo noioso male?

Qual arco apers'io mai, o quale strale
ti saettai? quai prieghi, o dove, o quando
ti fur fatti per me, che, me amando,
mi dessi il cor, di cui sì or ti cale?

Pregastu me, e sconiurasti Amore
ch'io t'avessi per mio: qual dunque inganno,
qual crudeltà t'è fatta? del mio onore

mi cal più troppo che del tuo affanno».
Così Fiammetta par talor nel core
mi dica; ond'io mi doglio e hommi il danno.


XLVI


Quante fiate indrieto mi rimiro
e veggio l'ore e i giorni e i mesi e gli anni
ch'io ho perduto seguendo gl'inganni
della folle speranza e del desiro,

veggio il pericol corso e il martiro
sofferto invan in gli amorosi affanni,
né trovar credo chi di ciò mi sganni,
tanto ne piango e contro a me m'adiro.

E maledico il dì che prima vidi
gli occhi spietati, che Amor guidaro
pe' miei nel cor, che lasso e vinto giace.

O crudel morte, perché non m'uccidi?
Tu sola puoi il mio dolor amaro
finire e pormi forse in lieta pace.


XLVII


Se io potessi creder ch'in cinqu'anni,
che gli è che vostro fui, tanto caluto
di me vi fosse, che aver saputo
il nome mio voleste de' mia danni

per ristorato avermi, de' mia affanni
potrei forse sperare ancora aiuto;
né mi parrebbe il tempo aver perduto
a condolermi de' mia stessi inganni.

Ma poi che gli è così, come sperare
posso merzé? come fin all'ardore,
che, quanto meno spero, è più cocente?

So si dovria cotal amor lasciare;
ma, non potendo, moro di dolore,
cagion essendo voi del fin dolente.


XLVIII


Dice con meco l'anima tal volta:
«Come potevi tu già mai sperare
che dove Bacco può quel che vuol fare,
e Cerere v'abbonda in copia molta,

e dove fu Partenopè sepolta,
ov'ancor le sirene uson cantare,
amor, fede, onestà potesse stare
o fosse alcuna sanità raccolta?

E s' tu 'l vedevi, come t'occuparo
i fals'occhi di questa, che non t'ama,
e la qual tu con tanta fede segui?

Destati omai, e fuggi il lito avaro,
fuggi colei che la tua morte brama.
Che fai? che pensi? ché non ti dilegui?».


XLIX


Son certi augei sì vaghi della luce,
ch'avendogli la notte già riposti
nel lor albergo e dentro a sé nascosti,
desti da picciol suono, ove traluce

quantunque picciol lume, gli conduce
il desio d'esso; al qual seguir disposti,
dove diletto cercan, ne' sopposti
lacci sottentron drieto al falso duce.

Lasso, così sovente m'addiviene,
ché, dove io sento dal voler chiamarmi
drieto a' begli occhi e falsi di costei,

presto vi corro, e da nuove catene
legar mi veggio onde di scaprestarmi,
stolto, speravo per rimirar lei.


L


L'obscure fami e i pelagi tirreni,
e pigri stagni e li fiumi correnti,
mille coltella e gl'incendi cocenti,
le travi e i lacci e' 'nfiniti veneni,

l'orribil rupi e' massi e' boschi pieni
di crude fere e di malvagie genti,
vegnon, chiamate da' sospir dolenti,
e mille modi da morire obsceni.

E par ciascun mi dica: «Vienne, ch'io
son per iscaprestarti in un momento
da quel dolor nel quale Amor t'invischia».

Ond'io a molti incontro col desio
talor mi fo, com'uom che n'ho talento;
ma poi la vita trista non s'arrischia.


LI


Le lagrime e i sospiri e il non sperare
a quelle fine m'han sì sbigottito,
ch'io me ne vo per via com'uom smarrito:
non so che dire e molto men che fare.

E quand'avvien che talor ragionare
oda di me (ché n'ho tal volta udito),
del pallido color e del partito
vigore e del dolor che di fuor pare,

una pietà di me stesso mi viene
sì grande, ch'io desio di dir piangendo
chi sia cagion di tanto mio martiro.

Ma poi, temendo non aggiugner pene
alle mia noie, tanto mi difendo,
ch'io passo in compagnia d'alcun sospiro.


LII


Se mi bastasse allo scriver l'ingegno
la mirabil bellezza e 'l gran valore
di quella donna, a cui diede il mio core
Amor, della mia fede eterno pegno,

e ancora l'angoscia ch'io sostegno
o per lo suo o per lo mio errore,
veggendo me della sua grazia fore
esser sospinto da crudele sdegno:

io mostrerrei assai chiaro e aperto
che 'l pianger mio e 'l mio esser ismorto
maraviglia non sia, ma ch'io sia vivo.

Ma poi non posso, ciaschedun sia certo
ch'egli è assai maggiore il duol ch'io porto,
che 'l mio viso non monstra e ch'io non scrivo.


LIII


Dentro dal cerchio, a cui intorno si gira
* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *


LIII bis


Quanto . . . . . . . . . . . . . . . . etc.
* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *


LIV


Così ben fusse inteso il mio parlare,
come l'intende i caldi sospir mei;
ché, ben ch'io viva in pianti acerbi e rei,
un gioco mi parrebbe a lacrimare.

Ma s'io potesse alquanto dichiarare
l'animo mio doglioso a chi vorrei,
son certo che poche ore viverei
fra tante angosce e tante pene amare.

Io farei quei begli occhi pietosi,
che, quando lacrimando a lor m'inchino,
non mi sarebbon fieri e disdegnosi.

Ond'io prego il mio fato e il mio destino
che porgan qualche luce a' tenebrosi
spirti che hanno a far sì alto camino.


LV


Fuggano i sospir miei, fuggasi il pianto,
fugga l'angoscia e fuggasi el disio
che auto ho di morir; vada in oblio
ciò che contra ad Amor già pensai tanto;

torni la festa, torni el riso e 'l canto,
torni gli onor devuti al signor mio,
li meriti del qual han fatto ch'io
aggia la grazia bramata cotanto.

Lo sdegno, el qual a torto me negava
el vago sguardo degli occhi lucenti,
coi qual Amor mi prese, è tolto via;

e quel saluto, ch'io più desiava,
con umil voce e con atti piacenti
pur testé mi rendé la donna mia.


LVI


Se quel serpente che guarda il tesoro,
del qual m'ha fatto Amor tanto bramoso,
ponesse pur un poco el capo gioso,
io crederrei con un sottil lavoro

trovar al pianto mio alcun ristoro:
né in ciò sarebbe il mio cor temoroso,
come che già, in punto assai dubbioso,
già mi negasse il promess'adiutoro.

Ma pria Mercurio chiuderà que' d'Argo
cantando di Siringa, che 'n que' due
io possa metter sonno col mio verso;

e prima nelle lagrime ch'io spargo
morendo adempierò le voglie tue,
crudel Amor, ver me fiero e perverso!


LVII


Qualor mi mena Amor dov'io vi veggia,
ch'assai di rado avvien, sì cara siete,
l'anima, piena d'amorosa sete,
come la luce vede, che lampeggia

da' bei vostri occhi, nel pensier vaneggia:
quello sperando ch'ancor non volete
– ciò è saziarsi, come voi vedete,
di mirarvi – focosa vi vagheggia.

E, com'è stolto il mio vago pensiero,
là ond'io credo refrigerio avere,
accese fiamme attingo a mill'a mille;

ma come cuocan non sento, nel vero,
mentre egli avvien ch'io vi possa vedere:
ma poi, partito, m'ardon le faville.


LVIII


Amor, se questa donna non s'infinge,
la mia speranza al suo termine viene,
perciò che ogni volta ch'egli avviene
che tu o forza di destin mi spinge

dov'ella sia, così 'l viso dipinge
di pallidezza subita e non tiene
le luci ferme, ma di desio piene
ora ver me l'allarga e or le stringe;

e sì vinta si monstra dai sospiri,
che 'n vista par che sol prieghi per pace,
contenta ch'io in tale atto la miri.

Io che farò, che nella tua fornace
ardo, premuto da mille desiri?
Non arderò, poi veggio che le piace?


LIX


Non deve alcuno, per pena soffrire,
quanto che 'l tempo paia longo o sia,
gittar del tutto la speranza via
o stoltamente cercar di morire:

ché un'ora sola può sopravenire,
la qual discaccia onne fortuna ria
e sì consola altrui, che l'omo oblia
danno e dolor e fatica e martire.

E io el so, el qual già longamente
chiesi mercé con doloroso pianto
agli occhi bei, che già fur dispiatati;

e, non sperando ciò, subitamente
Amor i mie' suspir rivolse in canto,
e sento la letizia di beati.


LX


Chi che s'aspetti con piacer i fiori
e di verde le piante rivestire
e per le selve gli uccelletti udire
cantando forse i lor più caldi amori,

io non son quel; ma, com'io sento fuori
zefiro e veggio il bel tempo venire,
così m'attristo, e parmi allor sentire
nel petto un duol, il qual par che m'accuori.

E è di questo Baia la cagione,
la qual invita sì col suo diletto
colei che là s'emporta la mia pace,

che non mel fa alcun'altra stagione;
e che io vadia là mi è interdetto
da lei, che può di me quel che le piace.


LXI


Intra 'l Barbaro monte e 'l mar Tirreno
sied' il lago d'Averno intorniato
da calde fonti, e dal sinistro lato
gli sta Pozzuolo e a destro Miseno;

il qual sent'ora ogni suo grembo pieno
di belle donne, avendo racquistato
le frondi, la verdura e 'l tempo ornato
di feste, di diletto e di sereno.

Questi con la bellezza sua mi spoglia
ogn'anno, nella più lieta stagione,
di quella donna ch'è sol mio desire.

A sé la chiama, e io, contra mia voglia,
rimango senza il cuore, in gran quistione
qual men dorriemi, il viver o 'l morire.


LXII


Toccami 'l viso zefiro tal volta
più che l'usato alquanto impetuoso,
quasi se stesso allora avesse schiuso
dal cuoi' d'Ulisse, e la catena sciolta.

E poi ch'è l'alma tutta in sé raccolta,
par ch'e' mi dica: «Leva il volto suso;
mira la gioia ch'io, da Baia effuso,
ti porto in questa nuvola rinvolta».

Io lievo gli occhi, e parmi tanto bella
veder madonna entr'a quell'aura starse,
che 'l cor vien men sol nel maravigliarse.

E, com'io veggio lei più presso farse,
lievomi per pigliarla e per tenella:
e 'l vento fugge, e essa spare in quella.


LXIII


E Cinzio e Caucaso, Ida e Sigeo,
Libano, Sena, Carmelo e Ermone,
Athos, Olimpo, Pindar, Citerone,
Aracinto, Menalo, Ismo e Rifeo,

Etna, Pachin, Peloro e Lilibeo,
Vesevo, Gaur, Massich'e Caulone,
Apennin, l'Alpi, Balbo e Borione,
Atlante, Abila, Calpe e Pireneo,

o qualunqu'altro monte, ombre giammai
ebber cotanto grate a' lor pastori,
quant'a me furon quelle di Miseno:

nelle quai sì benigno Amor trovai,
che refrigerio diede a' mia ardori
e ad ogni mia noia pose freno.


LXIV


Colui per cui, Misen, primieramente
foste nomato, cui cenere ancora
sparte nella tua terra fan dimora
e faran, credo, perpetualmente,

facea trombando inanimar la gente
e ad arme e a guerra, d'ora in ora,
e de' legni d'Enea di poppa in prora
batter il mar co' remi virilmente.

Ma tu di pace e d'amor e di gioia
sei fatto grembo e dilettoso seno,
degno d'eterno nome e di memoria.

Ben lo so io, ch'in te ogni mia noia
lasciai, e femmi d'allegrezza pieno
colui ch'è sire e re d'ogni mia gloria.


LXV


Se io temo di Baia e il cielo e il mare,
la terra e l'onde e i laghi e le fontane
e le parti domestiche e le strane,
alcun non se ne dee maravigliare.

Quivi s'attende solo a festeggiare
con suoni e canti, e con parole vane
ad inveschiar le menti non ben sane,
o d'amor le vittorie a ragionare.

E havvi Vener sì piena licenza,
che spess'avvien che tal Lucrezia vienvi
che torna Cleopatra allo suo ostello.

E io lo so, e di quinci ho temenza,
non con la donna mia sì fatti sienvi,
che 'l petto l'aprino e intrinsi in quello.


LXVI


Ben che si fosse, per la tuo partita,
l'alta speranza, la qual io prendea
de' tuo' vaghi occhi, qualor gli vedea,
giovine bella, quasi che fuggita,

pur sostenea la deboletta vita
un soave pensier, che mi dicea,
quando di ciò co' meco mi dolea:
«Tosto sarà omai la suo reddita!».

Ma ciò mai non avene, e me partire
or convien contra grado, né speranza
di mai vederti mi rimane alcuna.

Onde morrommi, caro mio disire,
e piangerò, il tempo che mi avanza,
lontano a te, la mie crudel fortuna.


LXVII


Poscia che gli occhi mia la vaga vista
hanno perduta, il cui lieto splendore
ciaschedun mio desir caldo d'amore
facea contento in questa valle trista,

dove più noia chi più vive acquista,
non curo omai se del dolente core,
alma, ten vai, perciò che 'l mio dolore
non regolerà mai discreto artista.

Anzi ten va, ch'io, che solea cantare,
non vo' pascer l'invidia di coloro
a' quai doler solea la mia letizia.

Vatten adunque omai, non aspettare
d'esser cacciata, e altrove ristoro
prendi, se puoi, di questa mia trestizia.


LXVIII


Deh, quanto è greve la mie sventura
e mobile più ch'altro il viver mio!
Io piango spesso con tanto disio
quant'alcun rida: e mentre il pianto dura,

vien nella mente mia quella figura
che più ch'altro mi piace, sallo Iddio.
Quivi col lieto aspetto vago e pio
conforta 'l core e l'alma rassicura,

dicendo cose, ch'ogni spiritello
smarrito surge lieto e pien d'amore
e me fan più ch'alcun altro contento.

Di quinci nasce chi dal viso bello
mi mostra esser lontano, onde 'l dolore
torna più fier che prima per un cento.


LXIX


Contento quasi ne' pensier d'amore,
soletto un giorno in essi dimorava,
imaginando il suo alto valore;

e, mentre dolcemente più pensava,
Amor m'apparve con gioioso aspetto,
ver me dicendo: «Qual pensier ti grava?

Non istar qui, ch'amoroso diletto
ti mosterrò, se tu mi seguirai,
di belle donne in fresco giardinetto».

Allora in piedi ritto mi levai,
seguendo lui, che diritto sen gio
in un giardin dilettevole assai.

Lasciommi quivi, e disse: «Mentre ch'io
a tornar penerò, fa che m'aspetti»;
e volando da me si dipartio.

Ma e' non stette guari, ch'io vedetti
lui ritornar con dodici donzelle
gaie, leggiadre e con gentili aspetti.

Tutte eran fresche, dilicate e belle,
d'erbe e di frondi verdi coronate,
negli occhi lor lucenti più che stelle.

Tutte danzando venieno ordinate
su un bello prato d'erbette e di fiori,
nel qual danzando Amor l'avea menate.

Fessi ver me Amor: «Tu, che di fori
della danza dimori, riguardando
ne' belli occhi a costoro i miei ardori,

odile nominare, sì che quando
forse sarai di fuor da questo loco,
d'onorarle disii per mio comando.

Tra l'altre, che più guarda il nostro foco
con senno e con virtù, costei è quella
allato a cui con allegrezza gioco.

Di Giachinotto monna Itta s'appella,
de' Tornaquinci, e Meliana è colei,
di Giovanni di Nello, ch'è dop'ella.

E la Lisa e la Pechia, che con lei
vengono appresso, amendune figliuole
di Rinier Marignan son saper dei.

A nostra danza quinta è il tuo sole,
cioè quella Fiammetta che ti diede
con la saetta al cor, ch'ancor ti dole.

Ell'è più bella ch'altra, ma nol crede
chi non riguarda lei con gli occhi tuoi,
però che tanto avanti alcun non vede.

E la bella lombarda segue poi,
monna Vanna chiamata, e, se tu guardi,
nulla più bella n'è con essonoi.

Di Filippozzo Filippa de' Bardi
seguita bella, e poi monna Lottiera
di Neron Nigi con soavi sguardi.

La Vanna di Filippo, Primavera
da tal conosci tu degna chiamata,
vedila poi seguir nostra bandiera.

Allato allato a lei vedi onorata
Sismonda di Francesco Baroncelli,
e poi, appresso lei, accompagnata

Niccolosa è di Tedice Manoelli
insieme appresso con Bartolomea
di Giovanni: Beatrice cre' s'appelli.

E ben che 'n fine della danza stea,
non è men bella, ma vien per riscossa,
come tu vedi»; e io ben lo vedea.

Tacquesi allora, e la danza fu mossa
sopra bei fiori e sotto verde fronda,
che a' raggi solar toglieva possa.

Onde ciascuna di quella gioconda
e bella danza, gaia e leggiadretta,
a cantar cominciò, come seconda

questa leggiadra e bella canzonetta:


LXX


«Amor, dolce signore,
che hai il nostro core
in tua balia, per Dio, fanne contente.

Tu se' nostro signor caro e verace,
e noi così volemo;
tu se' colui che ne può render pace
nel gran disio ch'avemo:
però quanto potemo
preghian tua signoria
che 'nver di noi si porti umilemente.

Noi siam qui giovinette, e tu 'l ti sai,
che poca di grevezza,
che noi sentiam, ci par sentire assai;
però la tua grandezza
a chiunque la sprezza,
signor, falla sentire,
ch'a noi non cal, che siam tue veramente.

Fa sentire a coloro il tuo valore,
che si fanno chiamare
inamorati sanza farti onore:
ché, se tu fai provare
lor quanto tu puoi fare,
saranno inamorati,
e noi ti loderem più degnamente.

Noi ardiam tutte per la tua virtute
nel tuo cocente foco.
Per Dio, mercé; deh, donaci salute
anzi che mutiam loco,
ché già a poco a poco
per te ci consumiamo,
se tu non ci soccorri tostamente.

Fa, signor nostro, gli animi pietosi
degli nostri amadori;
raffrena alquanto i lor atti orgogliosi
con più aspri dolori
che non hanno ne' cori,
sì che la nostra pena
e' provi come noi chi non la sente.

Entra en gli orecchi qui, ballata, avanti
ad Amor nostro siri,
e, come tu pietosamente canti
i nostri aspri martiri,
fa che pregando il giri
a darci tosto gioia,
prima che ei n'uccida crudelmente».


LXXI


L'aspre montagne e le valli profonde,
i folti boschi e l'acqua e 'l ghiaccio e 'l vento,
l'alpi selvagge e piene di spavento,
e de' fiumi e de' mar le torbid'onde,
e qualunqu'altra cosa più confonde
il pover peregrin, che mal contento
da' sua s'allunga, non ch'alcun tormento
mi desser, tornand'io, ma fur gioconde:

tanta dolce speranza mi recava,
spronato dal desio di rivederti
qual ver me ti lasciai, donna, pietosa.
Or, oltra quel che io, lasso, stimava,
truovo mi sdegni, e non so per quai merti:
per che piange nel cor l'alma dogliosa.

E maledico i monti, l'alpi e 'l mare,
che mai mi ci lasciaron ritornare.


LXXII


Perir possa il tuo nome, Baia, e il loco,
boschi selvaggi le tua piagge sieno,
e le tue fonti diventin veneno,
né vi si bagni alcun molto né poco:

in pianto si converta ogni tuo gioco,
e suspetto diventi el tuo bel seno
a' naviganti: il nuvolo e 'l sereno
in te riversin fumo, solfo e fuoco;

ché hai corrotto la più casta mente,
che fosse 'n donna, con la tua licenza,
se 'l ver mi disser gli occhi non è guari;

laond'io sempre viverò dolente,
come ingannato da folle credenza:
or foss'io stato cieco non ha guari!


LXXIII


O miseri occhi miei più ch'altra cosa,
piangete omai, piangete, e non restate:
voi di colei le luci dispietate
menasti pria nell'anima angosciosa,

ch'ora disprezza; voi nell'amorosa
pregion legaste la mia libertate;
voi col mirarla più raccendevate
il cor dolente, ch'or non truova posa.

Dunque piangete, e la nemica vista
di voi spingete col pianger più forte,
sì ch'altro amor non possa più tradirvi.

Questo desia e vuol l'anima trista,
perciò che cose grave più che morte
l'ordisti già incontro nel seguirvi.


LXXIV


Cader postù in que' legami, Amore,
ne' quai tu n'hai già molti aviluppati;
rotte ti sien le braccia e ispuntati
gli artigli e l'ali spennate e 'l vigore

tolto, e la deità tua sia 'n orrore
a quei che nasceran e che son nati,
e sianti l'arco e gli strali spezzati,
e il tuo nome sia sempre Dolore:

bugiardo, traditore e disleale,
frodolente, assassin, ladro, scherano,
crudel tiranno, spergiuro, omicida;

ché dopo il mio lungo servire invano
mi proponesti tal, ch'assai men vale:
caggia dal ciel saetta che t'occida.


LXXV


I' non ardisco di levar più gli occhi
inverso donna alcuna,
qualora i' penso quel che m'ha fatt'una.

Nissuno amante mai con fermo core
o con puro volere
donna servì, com'io servia costei;
e quando più fedele al suo valore
credia merito avere,
giovane novo fé signor di lei.
Ond'io bassando gli occhi dico: «Omei!
Non ne mirar nissuna,
ché come questa forse inganna ognuna».


LXXVI


Non so qual i' mi voglia,
o viver o morir, per minor doglia.

Morir vorre', ché 'l viver m'è gravoso,
veggendomi per altri esser lasciato;
e morte non vorre', ché, trapassato,
più non vedrei 'l bel vis'amoroso;
per cui piango, invidioso
di chi l'ha fatto suo e me ne spoglia.


LXXVII


Il fior, che 'l valor perde
da che già cade, mai non si rinverde.

Perduto ho il valor mio,
e mia bellezza non serà com'era:
però ch'è van disio,
chi perde il tempo e acquistarlo spera;
io non son primavera,
che ogni anno si rinnova e fassi verde.

Io maledico l'ora
che 'l tempo giovenil fuggir lassai;
fantina essendo ancora,
esser abbandonata non pensai:
non se rallegra mai
chi 'l primo fior del primo amore perde.

Ballata, assai mi duole
che a me non lice di metterti in canto;
tu sai che 'l mio cor vole
vivere con sospiri, doglia e pianto:
così farò fin tanto
che 'l foco di mia vita giugna al verde.


RICCIO BARBIERE A MESSER GIOVANNI BOCCACCIO


S'io avesse più lingue che Carmente
non ebbe, o fosse Appollo in me inchiuso,
sarebbe el sole nell'Orion rinchiuso
più d'una volta, del nostro oriente,

che io potesse dire enteramente
vostra magnificenza e moderno uso:
ond'io però di ciò a voi mi scuso
a guisa ch'al maestro fa el discente.

Ma più del dubbio ha presso lo 'ntelletto,
il qual di vera luce più m'affosca,
che non fa la nebbia verde lama.

Se uom può più amar che non conosca
e se conoscer può più che non ama,
come da voi per altra volta è detto,

da voi siami chiarito con effetto.


LXXVIII

RISPOSTA A RICCIO BARBIERE


Allor che 'l regno d'Etiopia sente
il rodopeo cristallo esser deluso,
e de' sui ogni serpe leva el muso,
surge a' mortali un nobile ascendente,

del qual fé la Sidonia dolente
pruove, al parlar, che sai, alto e diffuso;
non Pompeo Magno, Giuba o il nobil Druso
videro el ciel oprare altrimente.

Però, se ben ti recherai al petto,
con quale ago vedrai punga la mosca
di ciò che 'l tuo disio sì caldo brama.

Vedrai ancora che la gente tosca
risponder sappia quand'altri la chiama,
e per rampogna rendere un sonetto:

ben ch'arte non sia a te qual l'intelletto.


SONETTO DI SER CECCO DI MELETTO DE' ROSSI DA FORLÌ MANDATO A MESSER FRANCESCO PETRARCA, A MESSER LANCILLOTTO ANGUISSOLA, A MAESTRO ANTONIO DA FERRARA E A MESSER GIOVANNI BOCCACCIO


Voglia il ciel, voglia pur seguir l'editto
che imposto fu da prima alli ampi giri,
e rote intorno l'orbe con quei spiri
che giungon li elementi e 'l centro inscritto:

ch'è per servar quello antico rescritto,
o che l'armata man ver noi s'adiri
di Giove fulminando, o qual s'ammiri
di tenebre lunare el sol trafitto.

Non è alcun che si cuopra alle saette
avvelenate che 'l bel viver fura,
sì che l'uman valor fra i bruti mette;

e radi son, che con la mente pura
conosca il suo Fattore o sue vendette:
ma Lui non val parlar con lingua scura.

Le stelle erranti osservan lor viaggio,
né noi costringe a seguitar suo raggio.


RISPOSTA DEL PETRARCA


Perché l'eterno moto sopraditto
ciascun pianeto in sé rapido tiri,
divis'in parte per li moti giri,
sì come scrive il gran dottor d'Egitto:

né per combustion d'alcun, che vitto
sia dai raggi delli accesi ardiri
di Febo che sostenne li martiri
da sua sorella opposta al corso dritto:

nessun sarà, se Iddio non gliel permette,
che attento e fiso guardi la figura
del cielo adorno delle luci elette;

nel qual si può notar quanto sicura
e ferma nostra vita star s'aspette
nel fragil mondo opposto a sua natura.

Se l'intelletto umano è prode e saggio,
corso di stella non può farli oltraggio.


RISPOSTA DI MESSER LANCILLOTTO ANGUISSOLA


Alzi lo 'ngegno ogn'uom con quello amitto
che aver conviensi ai valorosi viri,
e l'un pianeto né l'altro martiri
o nòi natura in quanto ha Dio prescritto.

El ciel sue leggi osservi circumscritto:
non si dimostri tal che l'uom sospiri,
non forse oltra il certo ordin circumspiri
l'ira di Dio, come fé già in Egitto.

L'umane gregge dal temer constrette,
non però di veder mente matura,
dal vizio con ragion tornan corrette,

però che par sol di virtù misura;
ma contra conscienza si commette
e, riposato il ciel, sen va paura.

Così per entro uno scuro e un raggio
ci porta arbitrio a pace e a dannaggio.


RISPOSTA DI MAESTRO ANTONIO DA FERRARA


El cielo e 'l firmamento suo sta dritto
e guarda le sue rote che nol tiri
fora di corsi naturali e viri,
per osservar quel che de lui è ditto.

Se 'l movimento suo fusse raffitto,
la luna, el sol e altri suoi zaffiri,
dove conven che l'universo miri,
darebber passione al mondo afflitto.

L'umane genti son fatte sì strette,
che de virtù e cortesia non cura,
e poco attende quel ch'egli 'mpromette.

Offende al suo Fattor e sua figura,
con gli altri bruti, del mal che commette:
però l'eterna pena lor matura.

Le stelle son de sì alto legnaggio,
che nostra colpa li fa far oltraggio.


LXXIX

RISPOSTA DI MESSER GIOVANNI BOCCACCIO


L'antiquo padre, il cui primo delitto
ne fu cagion di morte e di sospiri,
pose assai poco modo ai suoi desiri,
essendo stato pur allor descritto.

Ma quel ritroso popul, che d'Egitto
non senza affanno uscl dopo i martiri,
ben ch'ei vedessi mille fatti miri,
rade volte seguì consiglio dritto.

Per che, noi se delle cose elette
più lontan siamo, seguitar misura
del ciel men grava all'anime perfette.

E, ben che spesso semplice paura
solare eclisse o squarciar nuvolette
faccia, chi 'l sente poco se ne cura.

Quel che morl per trarne di servaggio
mercé n'avrà per lo cammin selvaggio.


REPLICA DI SER CECCO DI MELETTO A MESSER GIOVANNI BOCCACCIO


Quando redire al nido fu disditto
a Giulio Cesar, perché fur deliri
gli padri col Senato e gli altri siri,
volse prima mostrar l'amar conflitto

el ciel perfidioso, stando pitto
di fiamme rogge e d'ardenti papiri
di terribil comete, e i color niri
alla solar quadriga porse amitto.

Similemente fé sua luce scura
anzi che Bruto l'arme avesse strette
contra il sangue cesareo; e l'ampie mura

tuttor cascar si vede, con le vette
dell'alte torri sparse alla pianura,
per terremoti o vive folgorette.

Dunque ha ben pien di furia suo coraggio
chi non paventa natural dannaggio.


LXXX


«L'arco degli anni tuoi trapassat'hai,
cambiato il pelo e la virtù mancata,
di questa tuo picciola giornata
già verso 'l vespro camminando vai;

buono è adunque amor lasciare omai,
e a pensar dell'ultima posata»
dice l'anima seco, innamorata,
qualor punta è da non usati guai.

Ma come l'ombra vede di colei,
non vo' dir gli occhi, che nel mondo venne
per dar sempre cagione a' sospir miei,

così all'alto vol si trae le penne,
e' passi volge tutti a seguir lei,
come fé già quando me' si convenne.


LXXXI

AD ANTONIO PUCCI


Due belle donne nella mente Amore
mi reca spesso, l'una delle quali
è di bellezze e di virtute eguali
e l'altra, un poco di tempo maggiore.

Ma del vestir di ciascuna 'l colore
in abito la mostra diseguali,
per che mi dice parole cotali,
qual udirai appresso, 'l mio signore:

«Questa leggiadra e gaia giovinetta
pulzella è veramente; e l'altra poi,
di brun vestita, vedova dimora.

Ma perché amar non possonsi a un'ora,
l'una convien ti sia donna per noi:
tosto dì quale amar più ti diletta».

In ciò da me non so prender consiglio,
però ricorro a te: dimmi qual piglio.


RISPOSTA D'ANTONIO PUCCI


Tu mi se' intrato sì forte nel core
con le tue dolci rime naturali,
che tutti i mie' disiri temporali
son di servirti e non d'altro tenore.

Ben ch'io d'ogn'esser sia di te minore,
com'io saprò così ti dirò «Sali»,
poiché Amor di sì fatti segnali
ti dice «Piglia qual ti par migliore».

Se 'nnanzi ch'e' sospinga la saetta
ti dà le prese ne' diletti tuoi,
prendi 'l vantaggio e a poter l'onora.

Chi di fanciulla vergine innamora
con dubbio segue gli sembianti suoi,
però che rado attien quel che prometta.

Onde io ti dico, come a padre figlio,
che per la vedova abbandoni il giglio.


LXXXII


Dietro al pastor d'Ameto alle materne
ombre scendea quel che ad Agenòre
furtò la figlia, quella il cui valore
nei mur troiani ancora si discerne,

quando tal donna, quale ad Oloferne
con tristo augurio si arse il fero core,
m'apparve, accesa con quello splendore
che è terza luce nelle rote eterne.

E femmi tal, vezzosa riguardando,
qual fé Cupido la figlia di Belo,
stando ella attenta e Enea ragionando.

Laond'io ardo, e ardendo del gelo
che sentì Biblis temo, imaginando
che 'l vestir bruno e il candido velo

non la faccia crudel ovvero onesta,
oltre el disio che per lei mi molesta.


LXXXIII


S'io veggio il giorno, Amor, che mi scapestri
de' lacci tua, che sì mi stringon forte,
vaga bellezza né parole accorte
né alcun altri mai piacer terrestri

tanto potranno, ch'io più m'incapestri
o mi rimetta nelle tua ritorte:
avanti andrò, fin che venga la morte,
pascendo l'erbe per gli luoghi alpestri.

Tu m'hai il cibo, il sonno e il riposo
e il parer uom fra gli altri e il pensiero
tolto, che io di me aver devrei,

e ha' mi fatto del vulgo noioso
favola divenire; ond'io dispero
mai poter ritrovar quel ch'io vorrei.


LXXXIV


Sì fuor d'ogni pensier, nel qual ragione
passeggi o stia, seguendo l'appetito
è il mio folle pensier del tutto uscito,
che paura nol può né riprensione,

né ancora colei che n'è cagione,
avendo il suo bel viso assai seguito,
ritrar dal corso, nel quale smarrito
corro all'ultima mia destruzione.

Così fa, lasso, negli anni migliori
il creder troppo al fervente desio
e l'invescarsi in le reti d'amore;

che, quando vuol, non può poi degli errori
disvilupparsi il misero, che Dio
e sé offende, e vive male e muore.


LXXXV


Quand'io riguardo me, vie più che 'l vetro
fragile, e gli anni fuggir com'il vento,
sì pietoso di me meco divento
che dir nol porria lingua non che metro,

piangendo il tempo, ch'ho lasciat'arietro
mal operato, e prendendo spavento
de' casi, i quai talora a cento a cento
posson del viver tormi il cammin tetro.

Né mi può doglia, per ciò, né paura
la vaga donna trarmi della mente,
dov'Amor disegnò la sua figura.

Per che, s'io non m'inganno, certamente
la fine a quest'amor la sepultura
darà, e altro no, ultimamente.


LXXXVI


Ipocrate, Avicenna o Galieno,
diamante, zafir, perla o rubino,
brettonica, marrobbio o rosmarino,
psalmo, evangelio e orazion vien meno;

piova né vento, nuvol né sereno,
mago né negromante né indovino,
tartaro né giudeo né saracino,
né povertà né doglia, ond'io son pieno,

poteron mai del mio petto cacciare
questo rabbioso spirito d'amore,
ch'a poco a poco alla morte mi tira.

Ond'io non so che mi debba sperare;
e ei d'ogn'altro affan mi caccia fuore,
e, come vuol, m'affligge e mi martira.


LXXXVII


S'Amor, li cui costumi già molt'anni
con sospir infiniti provat'hai,
t'è or più grave che l'usato assai,
perché, seguendol, te medesmo inganni,

credendo trovar pace tra gli affanni?
perché da lui non ti scavresti omai?
perché nol fuggi? e forse ancor avrai,
libero, alcun riposo de' tua danni.

Non si racquista il tempo che si perde
per perder tempo, né mai lagrimare
per lagrimar restette, com'uom vede.

Bastiti ch'ad Amor il tempo verde,
misero, desti, e ora, ch'a imbiancare
cominci, di te stesso abbia mercede.


LXXXVIII


Grifon, lupi, leon, bisce e serpenti,
draghi, leopardi, tigri, orsi e cinghiari,
disfrenati cavai, tori armentari,
rabbiosi can, tempeste e discendenti

folgori, tuoni, impetuosi venti,
ruine, incendi, scherani e corsari,
discorridori armati e sagittari
soglion fuggir le paurose genti:

ma io, che non son tal, perché discerno
com'orribil fuggirmi a chi non torna,
fuggita, se non vede dipartirme?

forse son io el diavol dell'inferno?
e crederre 'l s'io avessi le corna,
poi che così a costei veggio fuggirme!


LXXXIX


Poco senn'ha chi crede la Fortuna
o con prieghi o con lacrime piegare,
e molto men chi crede lei fermare
con senno, con ingegno, o arte alcuna.

Poco senn'ha chi crede atar la luna
a discorrer il ciel per suo sonare,
e molto men chi ne crede portare,
morendo, seco l'or che qui raguna.

Ma più ch'altri mi par matto colui
ch'a femina, qual vogli, il suo onore,
sua libertà e la vita commette.

Elle donne non son, ma doglia altrui,
senza pietà, senza fé, senz'amore,
liete del mal di chi più lor credette.


XC


«Era 'l tuo ingegno divenuto tardo
e la memoria confusa e smarrita
e l'anima gentil quasi 'nvilita
driet'al riposo del mondo bugiardo;

quando t'accese 'l mio vago riguardo
e suscitò la virtù tramortita,
tanto ch'io t'ho condotto ove s'invita
al glorioso fin ciascun gagliardo.

In te sta el venir, se l'intelletto
aguzzi, driet'a me, che la corona
ti serbo delle frondi tanto amate.

Che farai? vienne!» mi dice nel petto
la donna per la quale Amor mi sprona:
e io mi sto, tant'è la mia viltate.


XCI


Infra l'eccelso coro d'Elicona
mi transportò l'altr'ieri il mio ardire;
là dove, attento standomi ad udire
ciò che in quel s'adopra e si ragiona,

vidi, qual forse già fu la lacona
donna di Paris, una ninfa uscire
d'un lieto bosco e verso me venire
co' crin ristretti da verde corona.

A me venuta disse: «Io son colei
che fo di chi mi segue il nome eterno,
e qui venuta sono ad amar presta;

lieva su, vieni!»; e io, già di costei
acceso, mi levai: ond'io, d'inferno
uscendo, entrai nell'amorosa festa.


XCII


O Giustizia regina, al mondo freno,
mossa d'alta virtù dal sommo cielo,
or fredda e pigra sta' coverta a velo.
Rompe quest'aire e mostra tutt'el corso
e scendi con tuo forze e con l'ardire,
ché tal virtù non manchi al buon disire.
Fenda l'usata spada, e non con fretta,
ch'e colpi non fien tardi a chi gli aspetta.


XCIII


Fuggit'è ogni virtù, spent'è il valore
che fece Italia già donna del mondo,
e le Muse castalie son in fondo,
né cura quas'alcun del lor onore.

Del verde lauro più fronda né fiore
in pregio sono, e ciascun sotto il pondo
dell'arricchir sottentra, e del profondo
surgono i vizi trionfando fore.

Per che, se i maggior nostri hanno lasciato
il vago stil de' versi e delle prose,
esser non de' ti maraviglia alcuna.

Piangi dunque con meco il nostro stato,
l'uso moderno e l'opre viziose,
cui oggi favoreggia la fortuna.


XCIV


Apizio legge nelle nostre scole
e 'l re Sardanapalo, e lor dottrina
di gran lunga è preposta alla divina
dagli ozi disonesti e dalle gole.

E verità né in fatti né in parole
oggi si truova, e ciaschedun inchina
all'avarizia sì com'a reina,
la quale in tutto può ciò che la vuole

Onestà s'è partita e cortesia,
e ogn'altra virtù è al ciel tornata,
e insieme con esse leggiadria

dalle villane menti discacciata;
ma quanto questo per durar si sia,
Iddio sel sa, ch'ad ogni cosa guata.


XCV


Saturno al coltivar la terra puose
già lungo studio, e Pallade lo ingegno
alle meccaniche arti, e Ercul degno
si fé di eterna fama l'orgogliose

fiere domando; e l'opre virtuose
de' buon romani el nome loro e 'l regno
ampliar ultra ad ogni mortal segno,
e di Alessandro le imprese animose.

Così filosofia fece Platone,
Aristotele e altri assai famosi,
e Omero e Vergilio i versi loro.

Oggi seria reputato un montone
chi torcesse el camin dalli studiosi
di perder tempo ad acquistar tesoro.


XCVI


Tanto ciascun ad acquistar tesoro
con ogni ingegno s'è rivolto e dato,
che quasi a dito per matto è mostrato
chi con virtù seguisce altro lavoro.

Per che constante stare infra costoro
oggi conviensi, nel mondo sviato,
a chi, come tu fosti, è infiammato,
Febo, del sacro e glorioso alloro.

Ma perché tutto non può la virtute
ciò che la vuol, senza divino aiuto,
a te ricorro, e prego mi sostegni

contr'alli venti avversi a mia salute,
e, dopo il giusto affanno, il già canuto
capo d'alloro incoronar ti degni.


XCVII


Sovra li fior vermigli e' capei d'oro
veder mi parve un foco alla Fiammetta,
e quel mutarsi in una nugoletta
lucida più che mai argento o oro.

E qual candida perla in anel d'oro,
tal si sedeva in quella un'angioletta,
voland'al cielo splendida e soletta,
d'oriental zafir vestita e d'oro.

Io m'allegrai, alte cose sperando,
dov'io dovea conoscer che a Dio
in breve era madonna per salire,

come poi fu: ond'io qui, lagrimando,
rimaso sono in doglia e in desio
di morte per potere a lei salire.


XCVIII


Parmi tal volta, riguardando il sole,
vederl'assai più che l'usato acceso;
per ch'io con meco dico: «Forse esteso
si siede in quello il mio fervente sole,

il quale agli occhi miei sempre fu sole
poscia ch'io fui ne' lacci d'amor preso;
per certo ei v'è: però di tanto peso
son ora e raggi di quest'altro sole».

E sì nel cor s'impronta esto pensero,
che mi pare veder, guardando in esso,
sì come aquila face, intento e fiso,

la fiamma mia, e d'essa assai intero
ogni contegno, e conoscer da presso
li capei d'oro e crespi e il bel viso.


XCIX


Dormendo, un giorno, in sonno mi parea
quasi pennuto volar verso il cielo
drieto all'orme di quella, il cui bel velo
cenere è fatto, e ella è fatta dea.

Quivi sì vaga e lieta la vedea,
ch'arder mi parve di più caldo gelo
ch'io non solea, e dileguarsi il gelo
ch'in pianto doloroso mi tenea.

E, guardando, l'angelica figura
la man distese, come se volesse
prender la mia; e io mi risvegliai.

Oh quanta fu la mia disavventura!
Chi sa, se ella allor preso m'avesse,
e s'io quaggiù più ritornava mai?


C


Se la fiamma degli occhi, ch'or son santi
e che per me fur dardi e poi catene,
mortificasse alquanto le mia pene
e rasciugasse e grevi e lunghi pianti,

io udirei quelli angelici canti,
ch'ode chi vede il sommo e vero Bene,
né vagando anderei drieto alla spene,
ch'in questa vita molti ne fa erranti.

Ma essa, eterna, le cose mortali
disdegna, e ride del pensier fallace
che mi sospinge dov'ognor più ardo;

per che temo che mai alle mia ali
non verran penne, che a tanta pace
levar mi possan dal mondo bugiardo.


CI


«Che cerchi, stolto? che dintorno miri?
cenere sparta son le membra in ch'io
piacqui già tanto al tuo caldo desio
e mossi il petto ai pietosi desiri.

Perché non lievi gli occhi agli alti giri?
Io dico al ciel, anz'al regno di Dio,
dove più bel che mai il viso mio
veder potrai, e pien de' tuoi desiri».

Così con meco talora ragiona
la bella donna, vedendo cercarmi
quel che giammai quaggiù veder non deggio.

Ma come ravveduto m'abbandona,
piangendo penso come qui impennarmi
possa, e volar al suo beato seggio.


CII


Dante, se tu nell'amorosa spera,
com'io credo, dimori riguardando
la bella Bice, la qual già cantando
altra volta ti trasse là dov'era:

se per cambiar fallace vita a vera
amor non se n'oblia, io ti domando
per lei, di grazia, ciò che, contemplando,
a far ti fia assai cosa leggiera.

Io so che, infra l'altre anime liete
del terzo ciel, la mia Fiammetta vede
l'affanno mio dopo la sua partita:

pregala, se 'l gustar dolce di Lete
non la m'ha tolta, in luogo di merzede
a sé m'impetri tosto la salita.


CIII


Era sereno il ciel, di stelle adorno,
e i venti tutti nelle lor caverne
posavono, e le nuvolette alterne
resolute eron tutte intorno intorno,

quand'una fiamma più chiara che 'l giorno,
rimirand'io alle cose superne,
veder mi parve per le strade eterne
volando fare al suo loco ritorno,

e di quella ver me nascer parole,
le quai dicien: «Chi meco esser desia,
benign'esser convien e ubidiente

e d'umiltà vestito; e, s'altro vuole
cammin tener, giammai meco non fia
nel sacro regno della lieta gente».


CIV


Le rime, le quai già fece sonore
la voce giovinil ne' vaghi orecchi
e che movien de' mia pensier parecchi
a quel desio che m'infiammava il core,

scrivendole come dettava Amore,
han fatto chiocce gli anni gravi e vecchi,
poscia che morte ruppe quelli specchi
da' quai forza prendea lo mio vigore.

E, come 'l viso angelico tornossi
al regno là, dond'era a noi venuto
per farne fede dell'altrui bellezza,

e i passi miei di drieto a lui fur mossi,
né rima poi né verso m'è piaciuto,
né altro che 'l seguir la sua altezza.


CV


D'Omero non poté 'l celeste ingegno
a pien mostrar d'Elèna 'l vago riso,
né Zeusi, dopo, l'alt'e bel diviso,
quantunque avesse di molte il disegno:

e però contro a me stesso non sdegno
se 'l glorioso ben di paradiso
scriver non so, né l'angelico viso,
c'ha 'l mio cor seco nel celeste regno.

Ma chi desia veder quella bellezza,
che sola tenne in la vita mortale,
d'uom non aspetti alcun dimostramento,

ma di sacra virtù s'impenni l'ale
e su sen voli in la suprema altezza:
lì la vedrà e rimarrà contento.


CVI


Sì acces'e fervente è il mio desio
di seguitar colei, che quivi in terra
con il suo altero sdegno mi fé guerra
infin allor ch'al ciel se ne salio,

che, non ch'altri, ma me metto in oblio.
E parmi nel pensier, che sovent'erra,
quella gravezza perder che m'atterra
e quasi uccel levarmi verso Dio:

e trapassar le spere e pervenire
davanti al divin trono, infra i beati,
e lei veder, che seguirla mi face,

sì bella, ch'io non so poscia ridire,
quando ne' luoghi lor son ritornati
gli spiriti, che van cercando pace.


CVII


Mentre sperai e l'uno e l'altro collo
transcender di Parnaso e ber dell'onde
del castalio fonte e delle fronde,
che già più ch'altre piacquero ad Apollo,

adornarmi le tempie, umil rampollo
de' dicitori antichi, alle gioconde
rime mi diedi; e ben che men profonde
fosser, canta'ne in stil leggiero e sollo.

Ma poscia che 'l cammino aspro e selvaggio,
e gli anni miei già faticati e bianchi
tolser la speme del sù pervenire,

vinto, lasciai la speme del viaggio,
le rime e i versi e i miei pensieri stanchi,
ond'or non so, com' io solea già, dire.


CVIII


Il vivo fonte di Parnaso e quelle
frondi, che furn' ad Appollo più care,
m'ha fatto lungo tempo Amor cercare
driet'alla guida delle vaghe stelle,

che fra l'ombre salvatiche le belle
Muse già fer molte volte cantare:
né m'ha voluto fortuna prestare
d'esser potuto pervenire ad elle.

Credo n'ha colpa il mio debil ingegno,
ch'alzar non può a vol sì alto l'ale,
e non ha già studio o tempo perduto.

Darò dunche riposo all'alma frale,
e mi dorrò di non aver potuto
di quelle farmi, faticando, degno.


CIX


Dura cosa è e orribile assai
la morte ad aspettare e paurosa,
ma così certa e infallibil cosa
né fu né è né, credo, sarà mai;

e 'l corso della vita è breve, ch'hai,
e volger non si può né dargli posa;
né qui si vede cosa sì gioiosa
che 'l suo fine non sia lagrime e guai.

Dunque perché con operar valore
non c'ingegniamo di stender la fama
e con quella far lunghi e brevi giorni?

Questa ne dà, questa ne serve onore,
questa ne lieva degli anni la squama,
questa ne fa di lunga vita adorni.


CX


Assai sem raggirati in alto mare,
e quanto possan gli empiti de' venti,
l'onde commosse e i fier accidenti,
provat'abbiamo; né già il navicare

alcun segno, con vela o con vogare,
scampati ci ha dai perigli eminenti
fra' duri scogli e le secche latenti,
ma sol Colui che, ciò che vuol, può fare.

Tempo è omai da reducersi in porto
e l'ancore fermare a quella pietra
che del tempio congiunse e dua parieti;

quivi aspettar el fin del viver corto
nell'amor di Colui, da cui s'impetra
con umiltà la vita de' quieti.


CXI


Quante fiate indrieto mi rimiro,
m'accorgo e veggio ch'io ho trapassato,
forse perduto e male adoperato,
seguendo in compiacermi alcun desiro,

tante con meco dolente m'adiro
sentendo quel, ch'a tutti sol n'è dato,
esser così fuggito, anzi cacciato
da me, che ora indarno ne sospiro.

E so s'è conceduto che' mia danni
ristorar possa ancor di bel soggiorno
in questa vita labile e meschina?

Perché passato è l'arco de' mia anni,
e ritornar non posso al primo giorno,
e l'ultimo già veggio s'avicina.


CXII


Fuggesi il tempo, e 'l misero dolente,
a cui si presta ad acquistar virtute,
fama perenne e eterna salute,
el danno irreparabile non sente;

ma neghittoso forma nella mente
cagion all'ozio e scusa alle perdute
doti, le quai poi tardi conosciute
piange, tapino, e senza pro si pente.

Surge col sol la piccola formica
nel tempo estivo, e si raguna l'esca,
di che nel fredd'avverso si nutrica.

Al negligente sempre par ch'incresca:
onde nel verno muore, o ch'ei mendica,
e spesse volte senza lenza pesca.


CXIII


Fassi davanti a noi il sommo Bene
col gremb'aperto e pien de' suoi tesori,
e, acciò che ciascun se n'innamori,
a monstrar quali e' son sovente viene;

e de signor amico ne diviene,
s'aprir vogliangli i nostri freddi cuori,
e spira quinci e quindi e santi ardori
a raffrenar le colpe e tor le pene.

E noi, protervi ritrosi e selvaggi,
ci ritraiam indrieto e al fallace
ben temporale ostinati crediamo:

dal quale menati per falsi viaggi,
perdian, miseri noi, l'eterna pace,
e nel foco perpetuo caggiamo.


CXIV


Volgiti, spirto affaticato, omai,
volgiti, e vedi dove sei trascorso,
del desio folle seguitando 'l corso,
e col piè nella fossa ti vedrai.

Prima che caggi, svegliati; che fai?
torna a Colui, il quale il ver soccorso
a chi vuol presta e libera dal morso
della morte dolente, alla qual vai.

Ritorna a Lui, e l'ultimo tuo tempo
concedi almeno al Suo piacer, piangendo
l'opere mal commesse nel passato.

Né ti spaventi il non andar per tempo,
ch'Ei ti riceverà, ver te facendo
quel che già fece all'ultimo locato.


CXV


O Sol, ch'allumi l'un' e l'altra vita,
e dentro al pugno tuo richiudi il mondo,
poi non ti parve grave il mortal pondo
per ritornarci nella via smarrita,

se pietos'orazion fu mai udita,
ch'al ciel venisse a te da questo fondo,
a me, che 'l mio bisogno non ascondo,
presta i benign'orecchi e sì m'aita.

Io ho, seguendo gli terren diletti
e i tuo' comandamenti non curando,
offeso spesso la tua maiestade:

or mi ravveggio, come tu permetti,
e di tuo corte mi conosco in bando;
però, di grazia, addomando pietade.


CXVI


O glorioso Re, che 'l ciel governi
con eterna ragione e de' mortali
sol conosci le menti e quant'e quali
e nostri pensier sien chiaro discerni,

deh volgiti ver me, se tu non sperni
gli umili prieghi, e l'affezion carnali
da me rimuovi e sì m'impenna l'ali,
che io possa volare a' beni eterni.

Lieva dagli occhi mia l'oscuro velo
che veder non mi lascia lo mio errore,
e me sviluppa dal piacer fallace;

caccia dal petto mio il mortal gelo,
e quell'accendi sì del tuo valore,
che io di qui ne vegna alla tua pace.


CXVII


Non treccia d'oro, non d'occhi vaghezza,
non costume real, non leggiadria,
non giovanett'età, non melodia,
non angelico aspetto né bellezza

poté tirar dalla sovran'altezza
il Re del cielo in questa vita ria
ad incarnar in te, dolce Maria,
Madre di grazia e specchio d'allegrezza;

ma l'umilità tua, la qual fu tanta,
che poté romper ogn'antico sdegno
tra Dio e noi e far il ciel aprire.

Quella ne presta adunque, Madre santa,
sì che possiamo al tuo beato regno,
seguendo lei devoti, ancor salire.


CXVIII


O luce eterna, o stella matutina,
la qual chiuder non può Borea né Austro,
della nave di Pier timone e plaustro
del biforme grifon, che la divina

città lasciò per farsi medicina,
pria sé chiudendo nel virginal claustro,
del mal che già commise il protoplaustro
disubbidendo in nostra e sua ruina;

volgi gli occhi pietosi allo mio stato,
Donna del cielo, e non m'aver a sdegno,
per ch'io sia di peccati grave e brutto.

Io spero in te e 'n te sempr'ho sperato:
prega per me e esser mi fa degno
di veder teco il tuo beato frutto.


CXIX


O Regina degli angioli, o Maria,
ch'adorni il ciel con tuoi lieti sembianti
e stella in mar dirizzi e naviganti
a port'e segno di diritta via,

per la gloria ove sei, Vergine pia,
ti prego guardi a' mia miseri pianti;
increscati di me, to'mi davanti
l'insidie di colui che mi travia.

Io spero in te e ho sempre sperato:
vagliami il lungo amore e 'l reverente,
il qual ti porto e ho sempre portato.

Dirizza il mio cammin, fammi possente
di divenir ancor dal destro lato
del tuo Figliuol, fra la beata gente.


CXX


Tu mi trafiggi, e io non son d'acciaio:
e s'a dir mi sospingon le punture,
a dover ritrovarti le costure,
credo parratti desto un gran vespaio.

Deh, tu m'hai pieno, anzi colmo, lo staio;
bastiti omai, per Dio, e non m'indure
a dettar versi delle tua lordure,
ch'io sarò d'altra foggia, ch'io non paio.

E poi che la parola uscita è fuore,
indrieto ritornar non si può mai,
né vale il dir «Vorrei aver creduto».

Se 'l ti prude la penna, il folle amore
e la fortuna dan da dire assai:
in ciò trastulla lo tuo ingegno acuto.


CXXI


Poi satiro sei fatto sì severo
nella mia colpa e étti sì molesta,
credo sarebbe cosa assai onesta
prima lavasse il tuo gran vitupero

che mordesse l'altrui: uom sa, per vero,
la dolorosa e puzzolente festa
che festi del tuo nato, quand'in questa
vita 'l produsse il natural sentiero.

Né lascia questo divenire antiquo
l'infamia tua, ché nel cinquantesmo
gravida avevi quella cui tenevi.

O crudel patre, o sacerdote iniquo!
Poi, dov'uom scarca 'l ventre, per battesmo
si died'a quel cui generato avevi.


CXXII


S'io ho le Muse vilmente prostrate
nelle fornice del vulgo dolente,
e le lor parte occulte ho palesate
alla feccia plebeia scioccamente,

non cal che più mi sien rimproverate
sì fatte offese, perché crudelmente
Appollo nel mio corpo l'ha vengiate
in guisa tal, ch'ogni membro ne sente.

Ei m'ha d'uom fatto un otre divenire,
non pien di vento ma di piombo grave
tanto, ch'appena mi posso mutare.

Né spero mai di tal noia guarire,
sì d'ogni parte circondato m'have;
ben so però che Dio mi può aiutare.


CXXIII


Se Dante piange, dove ch'el si sia,
che li concetti del suo alto ingegno
aperti sieno stati al vulgo indegno,
come tu di', della lettura mia,

ciò mi dispiace molto, né mai fia
ch'io non ne porti verso me disdegno:
come ch'alquanto pur me ne ritegno,
perché d'altrui, non mia, fu tal follia.

Vana speranza e vera povertade
e l'abbagliato senno delli amici
e gli lor prieghi ciò mi fecer fare.

Ma non goderan guar di tal derrate
questi ingrati meccanici, nimici
d'ogni leggiadro e caro adoperare.


CXXIV


Già stanco m'hanno e quasi rintuzzato
le rime tua accese in mia vergogna;
e quantunque a grattar della mia rogna
io abbia assai nel mio misero stato,

pur ho tal volta, da quelle sforzato,
risposto a quel che la tua penna agogna,
la qual non fu temperata a Bologna,
se ben ripensi il tuo aspro dettato.

Detto ho assai che io cruccioso sono
di ciò che stoltamente è stato fatto,
ma frastornarsi non si puote omai.

Però ti posa e a me dà perdono,
ch'io ti prometto ben che 'n tal misfatto
più non mi spingerà alcun giammai.


CXXV


Io ho messo in galea senza biscotto
l'ingrato vulgo, e senza alcun piloto
lasciato l'ho in mar a lui non noto,
ben che sen creda esser maestro e dotto:

onde el di sù spero veder di sotto
del debol legno e di sanità voto;
né avverrà, perch'ei sappia di nuoto,
ch'e' non rimanga lì doglioso e rotto.

E io, di parte eccelsa riguardando,
ridendo, in parte piglierò ristoro
del ricevuto scorno e dell'inganno;

e tal fiata, a lui rimproverando
l'avaro senno e il beffato alloro,
gli crescerò e la doglia e l'affanno.


CXXVI


Or sei salito, caro signor mio,
nel regno, al qual salire ancor aspetta
ogn'anima da Dio a quell'eletta,
nel suo partir di questo mondo rio.

Or se' colà, dove spesso il desio
ti tirò già per veder Lauretta;
or sei dove la mia bella Fiammetta
siede con lei nel cospetto di Dio.

Or con Sennuccio e con Cino e con Dante
vivi, sicuro d'eterno riposo
mirando cose da noi non intese.

Deh, s'a grado ti fui nel mondo errante,
tirami drieto a te, dove gioioso
veggia colei che pria d'amor m'accese.




PARTE SECONDA


1


Iscinta e scalza, con le trezze avvolte,
e d'uno scoglio in altro trapassando,
conche marine da quelli spiccando,
giva la donna mia con altre molte.

E l'onde, quasi in sé tutte raccolte,
con picciol moto i bianchi piè bagnando,
innanzi si spingevan mormorando
e ritraensi iterando le volte.

E se tal volta, forse di bagnarsi
temendo, i vestimenti in su tirava,
sì ch'io vedeo più della gamba schiuso,

oh, quali avria veduto allora farsi,
chi rimirato avesse dov'io stava,
gli occhi mia vaghi di mirar più suso!


2


O dì felice, o ciel chiaro sereno,
o prati, o arbuscegli, o dolci amori,
o angeliche voci, o lieti cori,
de' quali vidi un bel giardin ripieno;

o celeste armonia, la qual seguieno
non so s'i' dica angelichi splendori
o vergini terrene, e tra' be' fiori
e le piante danzando si movieno!

Chi con istile ornato e con preciso
discrivere ne potria le vedute
bellezze, omai mo' viste fra' mortali?

Non io, ch'esser credendo in paradiso,
muover sentii secreta virtute,
che 'l cor m'aprì con più di mille strali.


3


D'oro crespi capelli e annodati
da sé e da verde frondi e bianchi fiori,
un angelico viso e due splendori
simili a stelle, e atti non usati

veder fra noi, vezzosi e riposati,
e un cantar di più gioiosi amori
soave e lieto ben tra mille fiori
del primo tempo, insieme radunati

in un giardino nato ad un bel fonte,
pos'Amore in amare alla mia mente
libera ancora, semplice e leggera.

Né pria, dal canto desto, alza' la fronte,
che tutte l'accerchiar subitamente
e presa a lui la dier, che vicin era.


4


Levasi il sol tal volta in oriente
senz'alcun raggio e rosso pe' vapori;
la luna, maculata di colori
oscuri, appar men bella e men lucente;

e del cielo ne sono assai sovente
dalle nuvole tolti gli splendori;
e' nostri lumi, vie molto minori,
per poco vento diventan niente.

Ma que' begli occhi splendidi, ne' quali
Amor fabrica e tempra le saette
che mi passano il core a tutte l'ore,

nebbia né vento curan, ma son tali
quai furon sempre: due vive fiammette,
lucenti più ch'alcuno altro splendore.


5


I cape' d'or, di verde fronde ornati,
gli occhi lucenti e l'angelico viso,
i leggiadri costumi e 'l vago riso
di questa onesta donna hanno scacciati

tutti li mia disiri, e sono in atti
di sì somma biltà qual io diviso,
e hanno di lor fatto un paradiso
degli occhi miei, più ch'altri, innamorati.

Onde ogni altra bellezza m'è noiosa:
questa mi piace e questa vo cercando,
in questa ogni mia gioia si riposa.

Per lei sospiro e per lei vo cantando,
per lei m'aggrada la vita amorosa,
per lei salute spero disiando.


6


Prati, giardini, vaghi balli o canti,
sollazzi né diletti né piacere,
giovane adatte, leggiadre vedere,
donne seguite da amorosi amanti,
nulla ne piace a me, quando davanti
non veggio nell'aspetto mio sedere
l'angelico bel viso, al cui piacere
vive contento il cuor de' sua sembianti.
* * * * * * * * * * * * * * * * * * * *


7


La volontà più volte è corsa al core
per discoprire a coste' le mia pene:
la boce a mezzo il petto si ritiene,
la lingua tace e perde ogni sentore.

Di nuovo il cor ancor prende valore
per voler dire, e pur fra due mi tiene:
«Sì dirai, non dirai; non, sì conviene,
se fedel servo se' tanto d'Amore».

Po' che la lingua e 'l cor perde l'ardire,
dite, occhi, vo', lagrimando, parole,
facendo certa lei sol quant'io l'amo,

e discovrite el mio tanto martire:
el suo bel viso splende più che l' sole,
e quanto più la fuggo, più la bramo.


8


Gli occhi, che m'hanno il cor rubato e messo
nella prigion d'Amore e lì legato,
Disio e Gelosia hanno mandato
e Speranza e Paura a star con esso;

le quale, a lui tenendosi da presso,
or tristo el fanno e or parer beato,
or arder tutto e or tutto gelato,
or pianger or cantare, e quest'è spesso.

Onde il girato in così fatti stremi
forte si duole per tal confusione;
grida mercé, e, perché nulla vale,

alzato ha vela e posto mano a' remi
più volte già per uscir di prigione:
ma, alzato il vol, li son strappate l'ale.


9


Io mi credea troppo ben l'altrieri
ricoverato aver mia libertate:
rotti avea i legami e ispezzate
le porte e ingannati i prigionieri,

e come per salvatichi sentieri
fuggiva forte e per vie disusate;
ma la sventura, che le mia pedate
seguì, fece vani i mia pensieri.

Perciò ch'Amor, dond'io non avvisai,
vedendo mi rinchiude, e le sua armi
ver me drizzando gridò: «Tu se' giunto!

O fuggitivo servo, ove ne vai? ».
E rider e 'l prender me e rilegarmi
e 'l darmi a' sua ministri fu in un punto.


10


Il mar tranquillo, producer la terra
fiori e erbette, el ciel queto girarsi,
gli uccelli più che l'usato allegrarsi,
quando fuori Eol Zefiro disserra,

ho già veduto; se 'l veder non erra,
veggio le donne belle e vaghe farsi,
e le bestie ne' boschi accompagnarsi,
e pace e triegua farsi d'ogni guerra,

posarsi i buoi delle fatiche loro,
e' bobolchi e' pastor sotto alcuna ombra
cercare il fresco e riposarsi alquanto.

Ma io, che per amor mi discoloro,
e cui disio più che speranza ingombra,
riposare non posso tanto o quanto.


11


S'io potessi lo specchio tenere
al cui consiglio fersi le saette,
che m'hanno il cor degli anni più di sette
passato sanza alcun contrasto avere,

da lui m'ingegnere' quelle sapere
fabbricar io, e qual tempra le mette;
po' con alquante delle più elette
vi metterei nel petto il mio piacere.

E ciò saria vedervi sospirare,
gridar mercé senza trovarla, s'io
non fussi prima di vendetta sazio.

Forse potresti ancor, donna, apparare
l'animo altero fare umile e pio,
e di non far d'altrui giocondo istrazio.


12


Chi crederia giammai ch'esser potesse
nel cuor d'una gran fiamma il ghiaccio ascoso?
Chi crederebbe ch'è quel poderoso,
che petto alcun come foco accendesse?

Chi crederia che la fiamma facesse
tremar alcun, quantunque pauroso?
Chi crederia che 'l freddo aspro e noioso
a furia alcun per sua forza movesse?

Crederoll'io, che dentro al petto mio,
quando sdegnosa questa fiamma fassi,
sento l'alma tremar e farsi fredda;

e sì m'affuoca, quando vo', che io
temo di cener farmi, e ella stassi
com' ghiaccio all'ombra o neve in parte stretta.


13


Se quelle trecce d'or che m'hanno il core
legato e stretto all'amoroso nodo,
e le quale ognor più onoro e lodo
sì come vole e mi comanda Amore,

d'argento alquanto prendesson colore,
forse ch'ancor piatà troveria modo
di fare il petto, adamantino e sodo,
trattabil, d'esta donna, in mio favore.

Ma mal mi par di ciò esser in via,
perciò ch'ognora si fanno più belle
e a me manca forza ad aspettare.

Dunque farò com'uom quando disia
quel di che mai non de udir novelle,
ma sostentat'è pur col van sperare.


14


Cadute son degli albori le foglie,
taccion gli uccelli e fuman le fontane;
le domestiche fere e le silvane
giuso hanno posto l'amorose voglie.

E l'umido vapor, che si racoglie
ne l'aere, atrista el cielo, e alle sane
menti son fatte le feste lontane
per la stagion acerba che or le toglie.

Né altro che neve si trova ad Amore,
il qual così mi tiene e strugge forte,
come sol far nel tempo lieto e verde;

e tra el ghiaccio e la neve m'arde el core,
il qual per crudeltà non teme morte,
né per zirar del ciel lagrima perde.


15


S'i' avessi in mano gli capegli avvolti
di te, c'ha' lo mio cuor per mezzo aperto,
prima ch'i' gli lasciassi i' vedria certo
pianger quegli occhi che da Amor son volti.

E poscia ch'io n'avessi tanti tolti,
ch'a me 'l tu' pianto fosse discoperto,
morte vorrei dalle tue man, per certo,
non li avendo però da mano svolti.

Po' i' vorria che con tua mano aprissi
el freddo cuore, ov'Amor con suo strale
la tua verace immagine confissi.

Verrieti pur pietà di tanto male,
e crederesti quel che già ti dissi,
e 'l core afflitto e I'angoscia mortale.


16


Ecco, madonna, come voi volete,
io sento la mia vita che vien meno;
né so se fia il vostro isdegno pieno,
che ha della mia morte sì gran sete.

Ma ditemi: dell'ossa che farete,
gnude di ciò che prima i ricoprieno?
Dite: porrete alla vostra ira freno
o la cenere al vento gitterete?

Non so; ma di vo' tegno tal credenza,
che raccoglier farete quelle sparte
e ricoprir, di me forse piatosa.

.......... i' spero, in qualche parte
e' facci de' mia falli penitenza,
sentirà gioia l'anima angosciosa.


17


I' ho già mille penne e più stancate
scrivendo in rima e in parlar soluto
l'angoscioso dolor, ch'ho sostenuto
lunga stagione aspettando pietate;

e, s'io non erro, assai men quantitate
quietare il mar da' venti combattuto,
e qualunqu'alto monte avrien dovuto
muover del luogo suo, men faticate,

non che 'l cuor d'una donna: il qual niente
per lor di sua durezza s'è mutato,
ma stassi freddo come ghiaccio all'ombra.

Ond'io mi struggo e dolorosamente
piango la mia fortuna disperato;
né 'l cuor per tutto questo non mi sgombra.


18


I' avea già le lagrime lasciate
e ritornava nel viso il colore,
perché alquanto più soave Amore
avea veduto, e l'arme avea posate;

e a bene sperar quella beltate,
ch'al mondo non n'è par, non che maggiore,
m'invitava talor con lo splendore
che 'n inferno faria l'alme beate;

quando, per nuovo isdegno, mi trovai
senza ragion nel mio misero stato,
nel qual mi struggo, come neve al sole,

in pianti e in sospiri, in doglia e 'n guai;
né a me cridar mercé, poscia, ha giovato
a chi pur morto, e non altro, mi vole.


19


Le nevi sono e le piogge cessate,
l'ira del ciel, le nebbie e le freddure;
i fior, le frondi e le fresche verdure,
i lieti giorni e le feste tornate.

Le donne son più che l'usato ornate,
e tutte quasi Amor le creature
trastulla e mena per le sue pasture,
nel nuovo tempo, credo, innamorate.

Per ch'io conosco ciò ch'io non vorrei:
a Baia 'n seno esser colei invita
che muove e gira tutti e disir miei.

Or dormiss'io infino alla reddita,
o girmene potessi là con lei,
o non saper ch'ella vi fosse ita.


20


Per certo, quando il ciel con lieto aspetto
riguarda ver la stagione novella,
nulla contrada ha 'l mondo così bella
né dove più si prenda di diletto.

Quivi Amor regna senz'alcun sospetto,
o 'l ciel che 'l faccia o singulare stella;
Venere credo poi venisse in quella,
del mare uscendo, come in luogo eletto.

Quivi le piagge, la marina, i prati
son pien di donne e di leggiadri amanti,
e ciò che piace par vi si conceda.

Quivi son feste e dilettosi canti;
quivi si mettono amorosi agguati,
né mai senza gioir si leva preda.


21


Degli occhi, dei qual nacque el foco ond'io
arder mi sento più che mai el core,
mover solia sovente uno splendore
che pace dava ad ogni mio disio.

Ora, o ch'io sia da lor messo in oblio,
come tal volta avvien, per novo amore,
o per disdegno o per cieco furore
o forse per alcun difetto mio,

non so; ma ben cognosco ch'io dispiaccio
dov'io solia piacer, sì dispettosi
torcer li vedo dond'io sia veduto.

Piango, sospiro e gli occhi dolorosi
piangono el tempo ch'io ho già perduto,
nutrendo el foco per cui or mi sfaccio.



22


I' vo, sonetto, i mie' pensier fuggendo,
come colui che se li trova rei,
però che sempre parlan di colei
che la mia morte vuole e va chiedendo,

e sì mi va, là dov'io vo, seguendo
ad occuparmi più ch'io non vorrei:
né giungon pria, che 'l bel viso di lei
col mio rimemorar vo dipingendo.

E simil fan le liete feste avute,
l'amor, la grazia, el piacer e 'l diletto,
e lei pongon dinnanzi alla mia mente:

le qual, come conosco esser perdute,
né mai di rivederle più aspetto,
pianti e sospir si fan subitamente.


23


Amore, pur convien che le tue arme
ti renda, lasso, e quello antico strale,
el qual così fosse stato mortale,
ché bel morir quanto bel viver parme!

E quel desio, che già solea infiammarme,
e la speranza e 'l mio servir liale
ti rendo, e quel piacer fallace e frale,
poi che a forza fortuna il fa lassarme.

Di che mi doglio a te, signor gentile
e tu doler ti doveresti ancora,
che fortuna mi cacci dal tuo ovile.

Ma l'esemplo dimostri a chi ti onora,
a chi ti serve, a chi siegue tuo stile,
a chi sotto tua insegna si rincora.


24


I' solea spesso ragionar d'amore
e talora cantar del vago viso,
del qual fatto s'avea suo paradiso,
come di luogo eletto, il mio signore.

Or è il mio canto rivolto in dolore
e trasmutato in pianto il dolce riso,
po' che per morte da no' s'è diviso
e terra è divenuto il suo splendore.

Né sarà mai ch'alla mente mi torni
quella imagine bella, che conforto
porger solea a ciascun mio disire,

che io non pianga e maladichi i giorni
che tanto m'hanno in questa vita scorto,
ch'io sento del mio ben fatto martire.


25


Se io, che già più giovine provai
d'Amor le fiamme e le saette acute,
ora per morte ora per salute
pregando, a sordo sempre lui pregai,

che dovria sperar ora giammai,
vedendomi le tempie esser canute,
crescer li affanni e mancar la vertute,
che sì di lieve pigliar mi lassai?

Certo null'altro che quello ch'io sento,
disio senza speranza; e di sospiri
cocenti come foco ho el petto pieno.

Dunque la morte sola al mio tormento
può donar pace e finir i desiri,
che per molti anni ancor non vegnon meno.


26


Se io credesse, Amor, che in costei
virtute o senno o sentimento fosse,
el fuoco che mi cuoce e che mi cosse,
come tu hai voluto e vo', per lei,

credo con pazienza sofferrei
drieto al dificio ch'amarla mi mosse,
ben che cener già sian le polpe e l'osse
e lo spirito manchi a' sospir miei.

Ma perch'io veggio suo basso intelletto
nulla sentir che laudevole sia,
contra mia voglia a te sono suggetto;

e poi, sdegnoso, piango il mio difetto,
che la fé donna dell'anima mia,
della qual mai non spero aver diletto.


27


Perché ver me pur dispermenti invano,
Amor, che più de' tuoi esser non deggio?
Altro mar ti conviene, altro pileggio
cercar che 'l mio, da te fatto sì strano.

Ben puo' veder ch'io son fatto sano,
né tua mercé più non disio né chieggio;
e quanto più ti sforzi a farmi peggio,
tanto da te più mi truovo lontano.

Spent'è la fiamma, che m'accese e arse,
fuggiti sono i mia giovini anni,
e tu co' modi tuo m'ha' fatto saggio.

Dunque le tue saette invano sparse
ricogli omai, e servati l'inganni
ad uccel nuovo, ch'io provati l'aggio.


28


O ch'Amor sia, o sia lucida stella,
te nel mio meditar forma sovente
leggiadra, vaga, splendida e piacente,
qual viva esser solevi, e così bella.

Quivi con teco l'anima favella,
ode e risponde, e tanta gioia sente,
che la gloria del ciel crede niente,
quantunque grande, per rispetto a quella.

Ma, com' la viva imagine si fugge
e rompesi il pensier che la tenea,
e che 'n terra se' cener mi ricorda,

torna il dolor che mi consuma e strugge,
e prego te che la morte mi dea
di te seguir: deh, non esser più sorda!


29


Rotto è il martello, rott' è quella 'ncugge
che solean fabbricar le dolce rime,
e rotti i folli, rotte son le lime,
e la fucina tutta si distrugge;

il foco più nel suo carbon non rugge,
che riscaldava le materie prime,
di che formando l'opre non sublime
cantai del falso amor cui ragion fugge.

E però cessa la mia vaga penna
di recar fole con parole vane,
e da così fatta arte si rimane.

Ma della fior soprana di soprane,
che vince l'altre come sauro brenna,
pur tratterò io laude alta e perenna.


30


Lasso! s'i' mi lamento io n'ho ben donde,
ch'io corsi e corro sempre gli anni rei,
e però vo gridando: «Omei, omei»,
per piani e per montagne e sopra l'onde.

E quando io mi ripenso i' non so donde
mi debba riposar gli stanchi piei,
sì mi menan girando i pensier miei
più forte assai che 'l vento non fa fronde.

I' non so per qual cielo o per qual fato,
o qual fortuna o qual distino in terra,
o per qual stella mi fosse ordinato

ch'io non dovessi mai uscir di guerra,
e povertà mi stesse sempre allato,
come fa, che da me mai non si sferra.


31


Carissimi fratei, la forma oscura
di me misero teschio risguardate,
le mie bellezze son da me cascate,
son rimaso ombra di crudel figura.

Non men di voi fui già bella istatura:
e le mie membra son da me iscacciate
e dalli vermin sì son divorate,
di cui tutti saremo lor pastura.

Rigido peccatore, in me te specchia
e sappi come a me hai a tornare:
di bona armatura or ti coverchia

Fal tosto, ché dubbioso è lo indugiare
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Chi seguita el mal fare,

la morte li conduce, e falli stretta
e sì è più forte che d'arco saetta.


32


Dante Alighieri son, Minerva oscura
d'intelligenza e d'arte, nel cui ingegno
l'eleganza materna aggiunse al segno
che si tien gran miracol di natura.

L'alta mia fantasia, pronta e sicura,
passò il tartareo e poi 'l celeste regno,
e 'l nobil mio volume feci degno
di temporale e spiritual lettura.

Fiorenza magna terra ebbi per madre,
anzi matregna, e io piatoso figlio,
grazia di lingue scellerate e ladre.

Ravenna fummi albergo nel mio esiglio:
e ella ha il corpo, l'alma ha il sommo Padre,
presso a cui invidia non vince consiglio.


33


Né morte, né amor, tempo, né stato,
né vostra crudeltà potrien far ch'io
altra donna mettessi nel cor mio.
Negli anni primi di mia giovinezza,
come Amor volle, donna, vostro fui:
se poi mostrai d'altra aver vaghezza
per tor di noi il mormorar altrui,
donna, l'ho fatto, e giuro per colui,
le cui saette non curate un fio,
ch'altri di voi, di me non può dir mio.


34


Tant'è 'l soperchio de' miei duri affanni,
e sì pungenti e gravi i dolor miei,
che dirlo non potrei
con cento lingue e con voce di ferro.
Fortuna verso me tutti i suo rei
proponimenti adempie, e tanti inganni
mi fa ne' teneri anni,
che stanco e vinto innanzi a le' m'atterro.
Qual cor di quercia o di macigno cerro
pure a un di tai colpi sarie 'ntero,
di que' che mille ciascun giorno i' sento?
Io non muoio, e non vivo, anzi fo stento:
questa vita non godo, e po' non spero
a riposo più intero
nell'altra vita andar per mie buon'opre.
Ma troppo ancor si copre,
gentil madonna, a vo' l'angoscia mia;
ond'io vo' che 'l mio dir più chiaro sia.

Po' che l'acerba e dura mia sventura
mi presentò dinnanzi al vostro aspetto,
quel giorno benedetto
che m'accozzò da prima a veder voi,
i' mi sentii tutto piagato il petto
d'una nuova ferita, e nuova arsura,
e 'ntenebrata e scura
d'amorosi pensier l'anima poi.
Il nome vostro con gli effetti suoi,
la condizione, e le fatiche appresso,
ch'i' vidi alle mie esser somiglianti,
non mi si sono partite po' davanti;
e altre cose, ov'io pensava spesso
a mio conforto stesso,
la mente fugge, e pur qui su ricorre,
e non mi so disporre
quel ch'i' mi faccia; e tormentoso vivo
s'i' dormo, o vegghio, o canto, o leggo, o scrivo.

Amor, che ne' vostri occhi stava armato
per saettar la semplice mia mente,
mi dié 'l colpo possente,
ond'io non credo ma' poter guarire.
Io non me ne guardava certamente,
fin ch'io sentii 'l mio cor tutto squadrato:
e non ar«a pensato
così nel primo assalto sbigottire.
I' sentii dentro a me nuovo disire
esser creato, e nuova signoria,
che sospigne me stesso oltra mia voglia;
e poi m'è giunta una incredibil doglia,
d'un'aspra ingiuria e di gran villania,
che la persona mia
ha ricevuta contro ogni dovere,
perciò a sostenere
si spezzerebbe in questo doppio assalto
un cuor non che di carne ma di smalto.

Ora a questi novelli aspri martiri
pariemi un refrigerio aver trovato,
venendo spesso in lato
ov'io potea vedervi e non parere,
siccome io era, d'amore infiammato;
e' mie' cocenti e dubbiosi disiri,
e' gravosi sospiri
potevano uscir fuori a lor volere
sotto coperta di cagion non vere,
bontà di quella, che del nome mio
è nominata, a cui io gran bene voglio.
Or la mia nave ha percosso in iscoglio,
e spezzata è la vela, e 'l vento rio
mi soffia contro, ond'io
non son contento mai ch'a mia cagione
sì dura offensione
ella abbi ricevuta a sì gran torto,
ond'ella n'ha vergogna, e io son morto.

Quel vento alla mia nave m'ha percosso,
che mi dovria dagli altri far sicuro,
e come fermo muro
l'altrui ingiurie a suo podere storre;
però di gran tristizia mi sfiguro
di lagrime bagnando il volto e 'l dosso;
e dovrei aver mosso
col vento de' sospiri ogni gran torre.
E veggo ben che 'nver la morte corre
la misera mia vita senza fallo.
Or, pel soperchio, donde Amor m'abbatte,
e per le 'ngiurie (po' che mi son fatte
da cui io non potre' mai meritallo),
madonna, in questo stallo
io mi ritruovo sì d'angoscia pieno,
e sdegno, che non meno
che per gran rabbia le carni mi rodo
chiamando morte a romper questo nodo.

Però, madonna mia, mi perdonate
s'a troppa sicurtà vi paio scorso,
ch'al mio dolor soccorso
né rimedio ci trovo altro che 'l vostro.
Vo' mi deste dapprima il duro morso,
onde l'altre fatiche mi son nate,
e sì multiplicate
che nol diria con lingua o con inchiostro.
Ond'io se la mia piaga non dimostro
al medico, che sa e può curarla,
potrebbe diventar cosa mortale.
Altro che 'l vostro aiuto non mi vale,
altro che voi non potrebbe sanarla.
Dunque se troppo parla
la lingua, che dal cuor sospinta viene,
a voi, donna, conviene
aver per iscusate le parole,
che son messagge del cuor che si duole.

Vattene, canzon mia, al verde lauro,
ch'alla sua ombra il cuor m'agghiaccia e strugge,
poich'al mi' andar Fortuna s'attraversa,
e contale la mia doglia perversa,
e dille come la mia vita fugge,
e come morte augge
tutte mie membra, e posto m'ha l'assedio,
se non mi dà rimedio
o co' begli occhi, onde guardar mi suole,
o col suon delle angeliche parole.


35


S'io potessi di fuor mostrare aperto
gli orribili martiri,
ch'io sostegno nel cuor, madonna mia,
maravigliar fare' vi, e so per certo
che non senza sospiri
legger potreste la scrittura pia,
ripensando sovente ch'a me sia
convenuto negar quel ch'io più bramo.
Or più che mai mi chiamo
nimico di Fortuna e di me stesso,
fuggendo quel ch'io bramo e ho promesso.

Non so di cui doler mi debba in prima,
o del folle disio,
che tanto stoltamente mi trasporta,
ponendo mia speranza in quella cima,
dove mai il poder mio
salir non può, ché sua virtù nol porta;
o della ria Fortuna tanto accorta,
ch'a tutte le mie imprese s'attraversa,
e 'n fondo mi riversa,
troncandomi del cuor ogni speranza,
ch'a mia beata vita dié sostanza.

Ella ha ver me quegli animi infiammati,
non ragionevolmente,
ch'a mio fallir dovriano essere scudi,
e poi dall'altra parte ha stimolati,
con atto irriverente,
i rustici insensati, alpestri e rudi,
per false conietture e segni nudi
di ciascun verisimil fondamento;
onde, s'i' mi spavento
dal luogo dove Amor m'invita e mostra,
il fo per conservar la fama vostra.

E non crediate che viltà di cuore
a questo punto m'abbia
dal voler primo indietro risospinto:
ché se 'l furor, ch'è dentro, così fore
mostrasse la sua rabbia,
ciascun di noi l'infamia avrebbe tinto;
ma 'l fren della ragion in questo ha vinto,o
ché la 'ngiuria e l'amor non m'ha commosso,
e ben sostegno addosso
d'ambedue queste cose tanto incarco,
ch'ha troppo teso e presso rotto l'arco.

La vile e bassa condizion di quelli,
che sottoposti sono,
sempre contro a' maggior d'invidia accende,
e falli calcitrando esser ribelli
al magnifico trono
di quel Signor, che le sue grazie spende
diversamente quanto si distende
del suo voler l'ineffabile avviso.
Dunque mirando fiso,
qui nuoce invidia, e non altro rispetto,
che contro al suo maggior move il suggetto.

L'ardentissimo fuoco, ond'io sfavillo
parole sì cocenti,
e la turbida nebbia degli sdegni,
che del mio petto sereno e tranquillo
ha mossi tanti venti
di sospir gravi e fatti gli occhi pregni,
non m'è sì duro, ch'agguagliar convegni
a quel ch'i' ho di voi pe' grandi errori,
che' vostri servidori
con tanta irriverenza hanno commessi
di parole e di fatti troppo espressi.

Non perciò dico che vostra clemenza
si turbi o si commova
contro del lor fallire a far vendetta;
ma con dolcezza loro sconoscenza
domar sia vostra prova,
che tanto eccesso più non si commetta;
sicché la vostra fama pura e netta
per lor falsi sospetti non offuschi:
se sono in vista luschi
chi ha due occhi non voglian guardare,
ché saria cosa da non comportare.

Fortuna cogli ostacoli nocivi
potrà ben dipartire
la corporal presenza spesse volte;
ma perché suo poder tutto sia quivi,
non potrà conseguire
che l'anime congiunte sian disciolte.
Or per non abbondar parole molte,
priego, s'a voi mio priego è nel cospetto,
che ciascun fatto o detto
contra di voi 'nfin qui dimentichiate,
e me per vostro servo sempre abbiate.

Va, canzon mia, dove que' che ti manda
più tosto andar vorrebbe,
ma 'l suo andar sì giusto non sarebbe.


36


Donna, nel volto mio dipinto porto
l'un de' gravi dolor che men m'agghiada,
e però non v'aggrada
lasciar a quel cotanto sopraffarmi;
ma a quel ch'i' ebbi dall'aurata spada
per man d'Amor, che m'ha già presso a morto,
non è mica gran torto,
più ch'i' non fo, doglioso dimostrarmi;
e non mi val che di fortezza m'armi
or contra l'uno, or contra l'altro assalto,
ché vinto l'uno e l'altro mi ratterra;
ma pure in questa dura e aspra guerra
il mio valor crescerebbe tant'alto,
che mi faria di smalto
a' colpi che di fuor Fortuna croscia,
se la maggiore angoscia
non fosse dentro alla piaga mortale,
dove giunse d'Amor l'aurato strale.

I' non avia provato ancora quanto
le 'nvisibili fiamme son cocenti
e le voci dolenti,
che 'l mantaco d'Amor soffiando spiri.
Tutt'altre doglie e tutt'altri tormenti
mi paion nulla, e ciascun altro pianto
mi pare o riso o canto,
verso questi incredibili martiri.
Lasso! che più non so dov'io m'aggiri!
fedito son dalla lancia d'Achille,
che chi da niun suo colpo era percosso,
per suo rimedio un'altra volta addosso
simili piaghe convenia sentille:
così quelle faville,
che mi son da' vostr'occhi al cor piovute,
mai non aran salute,
se da quegli occhi in quel medesmo loco
non piove un'altra volta un simil foco.

Se le mie rime pur la quinta parte
della pietà, con che le manda 'l core,
vi mostrasson di fuore,
non le potresti udir che non piagnessi;
ma elle perdon la voce e 'l tenore,
e non ho tant'ingegno né tant'arte,
che le povere carte
possan mostrar gli orribili processi,
donde 'l mio core è 'n bando di se stessi,
d'altrui pensando e sé abbiendo in ira,
come colui a cui di sé non cale.
Quest'è la vesta orribile e mortale,
che a Ercule mandò già Deianira,
la qual né per sua ira,
né per suo ingegno dalla propria carne
poté poscia schiantarne,
fin che l'ossa e la carne e 'l corpo tutto
come cera dal foco fu distrutto.

Ben veggh'io or l'autentica scrittura,
di chi parla d'Amore, esser verace,
dicendo che 'l fallace
laccio d'Amor non lega uomo occupato,
ma chi si posa in ozio e dorme e giace
pigliando spasso senza grave cura;
Amor si rassicura
verso di lui e mettesi in agguato,
fin che l'ha di sue frecce trapassato,
e torna alla sua madre sorridendo,
come vittorioso e buon guerriere.
Misero me! che per riposo avere,
dal luogo, dove gran fatica prendo,
mi partii non credendo
uscir del fuoco e rientrare in fiamma,
che dì e notte m'infiamma,
non trovando riposo a' dolor miei
se non là dove io gli raddoppierei.

L'eccesso di dolor, che 'l cuor mi spezza,
quanto più gli racchiudo, più rinforza;
e giammai non s'ammorza,
ma come foco in fornace profonda,
se fuor non esce, più dentro s'afforza,
e contro a sé riflette sua caldezza,
e l'aspra sua empiezza
squadra le mura e ciascheduna sponda.
Così, perch'io la mia pena nasconda
e l'affanno incredibile e 'l martiro
che per la bocca e per gli occhi sfavilla,
sento il dolor, che crescendo s'immilla;
e 'l vento accolto per fare un sospiro,
s'io lo stringo o ritiro,
mena po' dentro al cor tanta tempesta,
che d'un sospir che resta
n'escono po' cento impetuosi e maggi,
che svellerebbon querce e pini e faggi.

Ma lasso a me! ch'al medesimo grado
non corrisponde il dire a quel ch'i' sento;
e pur saria contento
ch'almen fosse creduto quel ch'i' dico
dalla mia donna, in cui mi pare spento
d'Amore 'l foco, e non le sono a grado;
sicch'io indarno bado,
ché del mio lamentar non cura un fico.
Ma io non credo aver sì gran nimico,
che se ascoltasse 'l mio acerbo dolore
a tenera pietà non si movesse;
e questa, che già vide, udì e lesse
quel ch'io sostengo, e sol per suo amore,
e vedelo a tutt'ore,
e per udita e per esperienza,
non muta sua sentenza,
ma sorridendo dice: «A maggior male
men doglia basterebbe, o altrettale».

S'io credessi ch'Amor per mio pregare
fra noi dirittamente giudicasse,
io dire' che cavasse
del suo turcasso una saetta d'oro
e 'l cuor della mia donna trapassasse,
per veder che difesa saprie fare;
e dovesse lanciare
a me con la 'mpiombata per ristoro,
ché dov'io or nel viso mi scoloro
per l'orata saetta, ond'io son punto,
e ella ride, ch'ha quella del piombo,
io udire' de' suoi pianti il rimbombo,
che 'nfino a' mie' orecchi saria giunto.
Allora in questo punto
vo' credereste a me, madonna mia,
e all'angoscia ria
per dar rimedio avrestimi risposto,
e non che tardi, ma per tempo, e tosto.

Ritruova, canzon mia, quel freddo marmo,
in cui raggio d'amor non par che spiri,
e dille i mie' martiri,
che la sorella tua mal par che conti;
e se ti par che la pietà sormonti,
chiedile umilemente una risposta,
e po' dì che nascosta
ti tenga quanto può a suo talento,
ch'amore e fede in ogn'uom truovo spento.


37


Nascosi son gli spirti e l'ombre tolte
di fronde agli albuscelli
dal poco amico inverno e da' suo nati:
ma non senza cagion le 'ngiurie molte
fatte gli son da quelli
per dargli maggior merti e più onorati.
Ma s'io ben seguo gli amorosi stati,
di te è similitudo,
che con affanno e sudo
ha' con Amor più tempo conversato.
Or è tolto l'usato,
poi che la iddea Pallas t'ha promesso,

Venus e Mars e Pallas dier concesso!
Hanti fatto principio grazioso
senza pigliar lunghezza
o altro tedio sopra tua procura.
Ben che i' degno fosse a star nascoso,
tuo prudenza e bellezza
a me donato fu farne figura.
Ma ben ch'a me sia grave tal ventura,
per non disubbidire
all'amoroso Sire
con riverenza acconterò gli onori
che ciascuna di fuori,
in disparte, ti fer le dee amiche,
sì che onoralle possa in tuo rubriche.

Quella vezzosa dea Venus, sorella
ch'è del vago Piacere,
Amor ti porse, nella prima vista,
nel viso di colei, leggiadra e snella.
Sempre ti pare avere
colorata, nel cor, d'amor suo lista:
ben ch'io conosco in cui sempre s'attrista,
quando privasti il passo
col petto sodo e masso,
facendoli austrar piazinga terra,
sì che virtù disserra,
ché, prima ch'ogni onor fatto le sia,
di tal donna t'ha fatto cortesia.

Invocar dee, come fervente amico
delle battaglie, Marte,
sì come provvedente a più ragione:
che comprese tuo mente, sì pudico,
he ti rogò le carte
di quella armata, senza far quistione:
non facendo d'alcuno altro menzione,
ma difinendo, spero,
che in istato sincero
. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .
verrai della tua donna per prodezza,
tra pel suo senno e per l'altrui mattezza.

Mostrò Pallade alla promessa grazia
fusse fervente e tosta,
con l'altre sue compagne, a farti onore.
Sì come imperial suo veste spazia,
e suo corona ha posta
sopra la vaga donna, ch'ha 'l tuo core.
Po' l'usate ricchezze trasse fore
dal lor padrone antico,
e a te, come amico,
legittimolle, e tu il passo largisti
con vaghi colori misti.
Questa beata dea nudritti a guisa
che sempre dei portar la sua divisa.

Dolce canzon, per cui suggetto stato
son notti e giorni alquanti,
vanne a colui, per cui mi ti fé servo.
Te gli offerrai sì come il più onorato,
e me a' prossimanti
gli dona come amico col tuo verbo;
e dì che mi gli serbo
sì come amico in segreto e 'n palese,
qual fen le dee, che preson sue difese.


38


Subita volontà, nuovo accidente,
volonteroso desider di fatto,
velocissimo e ratto,
Amor chiamato da ciascuno ignaro,
figurato se' ben propriamente
come dipinto se' stato ritratto;
sicché la forma e l'atto
risponde a te sanza nessun divaro;
onde color che prima ti formaro
conobbon tua natura per gli segni,
ché or ridi e or piagni,
ora scherzi, or t'adir come fanciullo,
che veramente segue ogni trastullo.

Quantunque falli, non è maraviglia,
chi ben riguarda le tuo condizioni:
le tuo operazioni
rispondon bene a te secondo el vero.
Tu se' dipinto con velate ciglia,
fanciullo ignudo, con piedi ad unghioni
pungenti più che sproni,
sempre con l'arco a saettar leggero,
ché vai vagando senza alcun pensiero
come colui in cui non è fermezza:
e la tua parvolezza,
trascorre sempre dove tu no 'ntendi,
figura il viso e gli occhi, che tu bendi.

Tua stolta volontà di voler vano,
l'essenzia tua essendo figura oscura,
palese rifigura
il nudo aspetto della tua sembianza.
O falso nome di volere umano
chiamato Amor, sollecita paura
fuor d'ogni dirittura,
volubile disio pien d'ignoranza,
fanciullo detto se' per la tua usanza.
Li momenti da cui sono commosse
le subite percosse
da tentazioni furiose e carnali,
non rappresentan altro gli tuoi strali.

Ahi quanti e quali mille volte e mille
n'hai mal condotti, vanità disfrena,
per far tua voglia piena,
e quanti n'hai condotti a mortal pena!
Chi da riprender più che 'l grande Achille,
credendo in te che giammai Pulisena
portasse una sol vena
d'amor, che morto avea suo maggior bene?
Ahi quanto arriva mal chi non s'astene
da tue bramose volontà moleste!
Per tuo forti tempeste
trecento mila tra greci e troiani
s'uccison mortalmente come cani.

La stoltizia tua mostrò Sansone
come bambin che nulla ha resistenza,
ché tutta sua potenza
e tutto suo podere abbandonone;
e per seguir tua voglia Salomone
perdé tutta la sua sapienza
e la divina Essenza
volonterosamente rinnegone.
Tu sempre fuggi da ragion, con fone
tenendo presi gl'ingannati affetti,
e sì li tieni stretti:
però dipinto se', come tu pigli,
co' piedi armati di pungenti artigli.

Per tuo voler fu cacciato Saturno,
Loferno ucciso per le man di Iuditte,
per te 'l signor Davitte
tradì, adulterò, fé omicidio,
per te fu morto il valoroso Turno,
per te le forze a Tarquinio sconfitte,
per te furon trafitte
le belle membra a Assalon, mal Cupido,
per te s'uccise la reina Dido,
per te suo padre abbandonò Medea,
per te il giovane Andrea
fu si può dir pur ieri strangolato,
e tutto il regno suo vituperato.

Morto ne venne l'alto re Artù
con cento milia cavalier pregiati,
seguendo i tuoi agguati
sempre l'un l'altro a libito sconfisse:
principio d'ogni mal sempre se' tu,
trasciolta voglia corrente a' peccati.
Per te fur dinotati
li primi padri, che Dio maledisse:
per te fu sempre quanto mal si disse
dice e dirà mai per sino al fine:
ma le virtù divine
ti cacceran dal mondo (e così sia),
come tu se' cagion d'ogni resia.

Canzon, va palesando questo Amore,
dico di quel ch'ha le luci velate,
le membra travisate,
come di sopra figurato scrivo.
È una vanità piena d'errore,
volonterosa e serva libertate
di varia vanitate,
piacer corrotto e d'intelletto privo,
a chi più il serve disider nocivo,
disordinato, contr'ogni virtute,
nemico di salute.
Però chi ama onor da lui si guardi,
prima che 'l senta, ché poi saria tardi.


39


O fior d'ogni città, donna del mondo,
o degna imperiosa monarchia,
o quale in tua balia
Asia tenesti, Africa e Europa,
come di sì alta se' tornata al fondo?
com'io non veggio sì gran signoria?
come tua baronia
non par che al tuo voler si mostri o scuopra?
Ahi sangue sparso di figliuol di lupa,
tu fosti cagion prima a tanti mali!
Tu li colpi mortali
poi riducesti alla civil battaglia,
qual fu di Mario, Silla o di Tessaglia.

Ove i due gentili Scipioni,
ov'è il tuo grande Cesare possente?
ove Bruto valente
che vendicò lo strupro di Lucrezia,
Furio Camillo e gli due Curioni,
Marco Valerio e quel tribun saccente
Quinto, Fabio seguente,
Cornelio, quel che vinse Pirro e Grezia,
Publio Sempron colla vinta Boezia?
Il fedel Fabrizio, Fulvo, Quinto Gneo
Metel, Marco, Pompeo,
Porcio Caton, Marcel, Quinto Cecilio,

Tito Flaminio e il buon Floro Lucilio?
Ov'è il gran consolato e' senatori,
ove quel grazioso Ottaviano,
ove il grande Traiano,
e Costantino, valoroso Augusto?
ove le dignitadi e gli altri onori,
ove quel Tito e quel Vespasiano,
e 'l magno Aureliano,
e Marco Antonio, sì benigno e giusto?
ov'è il nobil oratore Sallusto,
ove il facondo Cicero primero?
e il Massimo Valero
e Tito Livio e gli altri signor grandi?
dove son l'ali tue, che non le spandi?

O iddea Giunon, nimica de' troiani,
o misero il tuo duca di Cartagine,
o dolorosa imagine,
quanto fu amara nel tuo tristo lume!
quando Appio Claudio con gli altri romani
della tua gente fer tanta voragine,
come con certa imagine
mostrò il Metauro, sanguinoso fiume.
Tu vedesti per l'aere far velume
ne' tuo castelli la fraterna testa.
Deh, dov'è la gran festa,
ov'è 'l trionfo di Sempronio Gracco
che fé degli affrican così gran fiacco?

Reggevi Macedonia con Galazia,
Egitto, soriani e cappadoci,
li franceschi feroci,
bitini, lusitani, iberi e persi,
illirici, celtiberi e Dalmazia,
li numantini e li parti veloci,
e variate voci
d'altri reami e paesi diversi!
Ove sardeschi e mauritan conversi,
ircani, aracadii e pelasgoni,
armeni, libani e calcedoni,
indi, mesopotami, arabi e scite,
e gente, più che qui sono, infinite?

Or se' senza l'imperiale bacchetta,
e papa e imperador di te non cura:
or se' rimasa scura
e senza luce di cotanto pregio.
D'ogni scienza fosti madre eletta,
della morale e poi della natura:
or te la toglie e fura
Parigi e' bolognesi, come io veggio:
Firenze e' perugin dell'alto seggio
t'han già cacciata e tolta la corona;
e ogni altra persona
di te si beffa, perché 'l ben comune
ciascun ti toglie, e 'l mal far non si pune.

Chiunque che ami tanto questa donna,
e poi ciascun, ch'è suo ver cittadino,
Colui che è uno e trino
umilemente preghi, ch'El si degni
renderle parte de' perduti regni.


40


Cara Fiorenza mia, se l'alto Iddio,
da cui ogni perfetto ben discende,
non procura e attende
contro la tua veloce e ria fortuna,
i' ti veggio venire a punto ch'io
già piango per lo duol che 'l cor ne prende;
il qual tanto mi offende
ch'alcun diletto meco non s'aduna.
Per te non è chi mova cosa alcuna
ch'abbia in sé valor, né alcun bene:
e questo è quel per ch'ogni mal t'avvene.

Come potrestu mai prender salute
contra' nemici tuoi che t'hanno morta,
quando dentro alla porta
del tuo bel cerchio ogn'uom fatt'è scherano?
chi ti difende ch'abbia in sé vertute?
o chi in tante ruine ti conforta
dov'io ti veggio scorta
per mala guida di consiglio strano?
Certo, s'al proprio ver no' riguardiano,
gente non degna d'abitar tuo nido
son la cagion di questo amaro strido.

Mentre che fusti, Firenze, adornata
di buoni, antichi, cari cittadini,
i lontani e' vicini
adoravan Marzocco e' tuo figliuoli:
ora se' meretrice pubblicata
in ogni parte, infin tra' saracini.
Omé! che tu ruini
pe' tuo peccati in troppi eterni duoli.
Deh, ravvediti ancor, ché puoi, s'tu vuoIi;
e fa che tu sia intera e non divisa,
e muterai di pianto in dolce risa.

Ov'è prudenza, fortezza e giustizia
e temperanza e l'altre suore loro,
ch'erano el tuo tesoro
quando volevi dimostrar tua possa?
Tu l'hai cacciate via con avarizia,
con superbia e lussuria, nel cui coro
tu vivi e fai dimoro,
per che ti rodon le midolla e l'ossa;
e non temi giudicio né percossa
dell'eccelso Signor, che t'ha più volte
di molte imprese le vittorie tolte.

I' mi vergogno ben di ciò ch'i' parlo
considerando ch'i' son di te isceso;
ma il soperchio del peso
del grave oltraggio che sostien m'induce.
Se' tu sì cieca che non vedi el tarlo
cascar dell'ossa tua sanza conteso?
Non vedi stare inteso
ciascun vicin per cavarti la luce?
Deh, muoviti a pensar chi ti conduce
e a che punto se' per lor difetto,
e scorgerai s'è ver ciò ch'io ho detto.

Canzona, i' so che letta tu sarai
da molti, che la tua sentenzia chiara
parrà molto amara,
perché de' vizi lor dicendo vai:
ma, se tu truovi alcun che sia gentile,
parla con lui, ch'e' non t'avrà a vile.


41

[L'AVE MARIA]


La dolce Ave Maria di grazia plena,
Dominus tecum, la qual fu salute
che 'l primo fallo e noi trasse di pena,

acciò ch'al mio prencipio die virtude,
come bisogna, perché l'alma viva
fuor di miseria e delle genti crude,

divoto priego, ch'alla vaga riva
di coscienza, con pietà rassegna,
guidi la barca mia di porto schiva;

e scaldimi del sol ch'eterno regna,
lo qual risplende in ciaschedun cristiano,
che solo in dargli tre palme s'assegna.

La prima delle qual sia il senso umano,
mostrar del suo peccar contrito core,
con occhio lagrimoso e spirto sano.

Seconda sia in confessar l'errore,
ch'ha sotto volontà posto el talento,
né, perché grave sia, farlo minore.

La terza sia in disiar contento,
lo confessato e lo pentuto fallo
purgar con opra, e poi tenerlo spento.

E quest'è 'l bianco e meritato callo,
quest'è 'l diletto del giusto appetito,
che degno canta nel beato ballo.

Dinnanzi a queste non vince partito
la fiera lupa delle sette branche,
con le quai artiglia il più romito.

Quest'è superbia, avarizia e anche
lussuria, invidia e la bramosa gola,
ira e accidia, ch'avverar son franche.

Di fuor si mostran vaghe sì che 'nvola
dall'intelletto nostro l'occhio pio,
dal buon rispetto ch'al superno vola.

L'umana sorte fa di lor disio,
onora e loda chi n'ha maggior soma
e piglia maggior pesci di tal rio,

senza rispetto di Colui che doma
con l'alta chiova ogni animal feroce
e che ci scorse alle vietate poma,

lasciandosi per noi por nella croce,
ferir e fragellar fin nella morte
ch'al Consummatum est aperse voce.

Dalla qual risurgendo spezzò porte
del scuro Limbo, scarcerando quegli
che degni ritrovò per giusta sorte.

E montando nel ciel lasciò a noi i gigli
delli Apostoli suoi, che fero al mondo
la via che drizza agli eterni consigli:

col Padre e Spirto Santo è Quel giocondo,
e Elli in Lui, sicché son tre in uno,
e uno in Trinità indiviso e tondo.

Ivi è giustizia senza manco alcuno;
iv'è misericordia e valor tutto,
che merita di noi il bianco e 'l bruno.

Ivi è la Madre di quel dolce frutto,
che con piatade sempre grazia acquista
alla miseria d'esto mondo brutto.

A cui intendo di drizzar mia vista
con le dolci parole di colui
che 'nanzi al nascer suo fu profetista.

Lo qual gli disse, com' fu innanzi a lui:
«Benedicta tu in mulieribus,
et benedictus fructus ventris tui»,

flettendo sé 'n Helisabeth visceribus,
«et unde mihi hoc, che El me vene
a visitar, pre ceteris muneribus,

la Madre del Signor d'ogni mio bene?»
finendo qui la vera profezia,
ch'al grembo verginal raffermò spene.

Così io, con fedele melodia,
dico: «O sopra tutte benedetta,
per Spirto Santo eletta Madre pia

del benedetto frutto che in distretta
del ventre tuo si pose, fin ch'El nacque
e prese carne umana, pura e netta!

S'io ben comprendo, tu se' il mar dell'acque
che drizzan corso per lo sommo regno,
e se' ciò che 'n valor virtù compiacque.

Tu se' la fede dello cristian segno,
tu se' speranza al giusto e al peccatore,
e se' di carità perfetto ingegno.

In te è sapienza, in te prudente fiore,
in te intelletto, in te magnificenza
e magnanimità con grande amore.

Tesor se' sommo di somma prudenza;
la qual soccorri ispesso innanzi al prego
a chi ti porta, com' dea, reverenza.

Non è benignità che non sie teco;
non è umilità, né tenerezza,
non è perfetto ben s'tu non se' seco.

Tu se' splendor di superna chiarezza,
diletto incomprensibil di quel trono,
che canta Osanna nell'eterna altezza.

Ciò che tu dai è perfetto dono,
né mai sdegni l'udire a chi ti chiama,
né pagan, né giudeo, se vuol perdono,

perché sempre se' verde e ferma rama,
alla qual chi s'appiglia mai non cade,
e sempre prieghi per ciascun che t'ama.

Ond'io, o donna, o fonte di pietade,
ben ch'io fra' peccator grave mi senta,
vegno divoto alla tua maestade;

e col core e colla mente intenta
in tutto a te confesso il mio peccare,
che sanza freno cavalcar contenta,

lasciandomi più volte incatenare,
per gran lascività, lo mie intelletto;
e dove più conosce, è più fallace,

pigliando di malizia ogni diletto.
Né mai d'altrui miseria a coscienza
guardo, ovver dimostro aver rispetto;

d'ogni vergogna certo ho sperienza,
senza memoria delle somme scale,
né mai la mente drizzo a penitenza.

E 'l bianco e 'l biondo e l'aver criminale
involgon vaga mia fatica e voglia,
e a me paion virtù cardinale!

Lo mio arbitrio di virtù si spoglia,
non veggio, senza te, che mai l'adorna
e santa corte tra lor me raccoglia.

Però, Vergine eccelsa, in cui soggiorna
ciò che 'n excelsis lo tuo figlio onora,
e odi il Miserere ch'a te torna,

ricevi il priego mio, ch'a fé t'adora;
e come tu dicesti «Ecco l'ancilla»,
così mi scalda del tuo foco ognora,

lo quale in carità tanto sfavilla,
ch'attuta e vince li furor mondani,
e tocca il cor con divina scintilla.

Drizza la mente mia a quelli arcani
consigli e spirti che l'anima affetta,
e più la trae de' viluppi umani.

Non mi lasciar l'error, che doman spetta,
e mi dà penitenza e confessione,
perché subita vien mortal barchetta.

Cancella in me la falsa oppinione:
dammi ch'i' pianga e contrito sospiri
gli mie' trapassi e gravi offensione.

Dammi diletto di sentir martiri
di mia malizia e di mia acerba possa,
e di seguir col cor li tuoi disiri.

Non mi lasciar tener mia colpa grossa;
dammi franchezza tal ch'i' la discolpi,
come bisogna a sì feroce mossa.

Non consentire all'insidiose volpi
gli agguati doppi, ch'all'anima mia
han posti e pongon, ché foco la spolpi.

Poi quando a Dio parrà che 'l mio fin sia,
perdon ti cheggio e che per mia vittoria
sempre la faccia tua 'nante mi stia.

La qual discacci quel ch'inferno storia,
e me conservi così fermamente,
come bisogna ad acquistar la gloria

del tuo Figliuolo e Padre onnipotente».


42


Amico, se tu vuogli avere onore
. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .
o signoria di terra,
con volontà fa guerra
e co' ragione pace:
a questo modo è l'uom signor verace.

Bisogna all'uom, che vuol avere effetto
di cosa alcuna, saper la ragione
del disiato fine: avrà diletto
dopo 'l saper se fa l'operazione;
come sta sopra sol per la ragione
d'ogni brutto animale
l'uom ch'è razionale,
così l'uom, ch'a dovere
vive, e' sta sopra' servi del volere.

Creder non dei ch'alcun per gran lignaggio
di signoria ricever debba onore,
ché da natura non procede omaggio,
ma vizio servo, e virtù fa signore:
ché Dio libertà mise in uman core
e discrezion ch'elegga
lo bene e 'l mal corregga,
onde chi sé non doma
convien di servitù che porti soma.

Da gran necessità el male ordinato
e 'l ben disposto al signor fue sommesso,
a ciò che di vertù fosse esaltato
lo buono, e 'l rio punito de l'eccesso;
fu solo a quel signo[r] regnar comesso
che visse virtuoso,
. . . . . . . . . .
sanza ordine abandona
la signoria e servitù lo sprona.

E ragion dei e ordine servare
po' che da lor procede signoria:
invoca Idio dunque nel cominciare,
e 'l tuo volere a te non soprastia,
e se hai cupidità, cacciala via,
e sieti sempre dura:
se già nolla sicura
ragion tua cominciata,
nolla seguir, s'è non ben cominciata.

Fa che ti rechi dentro dalla mente
lo peso che portar dei sopra ispalle,
e l'ordine dispon primieramente
lo qual servar farai per ogni calle,
ché leggermente da mont' e da valle
colui sale e discende
che ben provede e 'ntende
ciò ch'essergli può incontro
. . . . . . . . . .

Gravi compagni a' tuo consigli eleggi,
savi che d'esso 'ficio sieno isperti,
e famigliar, che quando gli correggi,
contra tua voglia già nessun concerti
e tu di gastigargli non ti perti:
questo vidde congiunti
ché, perché non son punti
de' falli gastigati,
molti signori han già vituperati.

Habito prendi ch'a tua dignitade
s'avenca: in signor vole apparenza.
Usa costumi di nobilitade
entro, benché non sien di vile essenza;
e famigliari [tuoi] che riverenza
ti faccin a tutt'ore
ma più quando esci fuore:
se non ti riverisce
quel d'entro, quel di fuor non t'ubidisce.

Il tuo collegio a te spesso raguna;
dimanda lor di quel che tu non senti,
a ciò che se fallassi in cosa alcuna
tu ponga all'ammendar gl'intendimenti.
Mostra che' lor consigli ti contenti:
non parrà ch'avvalere
tu vuogli nel tuo dire:
alcun ben che ti spiaccia,
dimostra almen che 'n qualche parte piaccia.

Kara ti paia ogni cosa non vile:
voglia per [buon] consiglio sempre fare,
siasi chi vuole giovane o sinile,
volere d'ogni cosa adimandare:
a ciò provedi loco che ti pare
segreto e più adatto
per lo miglior del fatto;
eleggi tempo e punto
coll'uom che alla ragion sia più congiunto.

L'usanza a te di terra sottoposta
onorerai non come di villani:
fara'ne cortesia, ché poco costa
e vale assai, cogli loro anziani,
e simile cogli altri terrazzani:
tengonsi ad onoranza,
se veggon che possanza
gli onori: a te gli trai
e non da men giustizia gli farai.

Mira e guarda, se è ispeziale
grazia chiesta, che giustizia porti:
nolla prometter ma con generale
risposta fa che 'l chieditor conforti:
saggio signore ha gli costumi acorti,
grazioso in parole,
e' fa quel che far vole:
ha lingua graziosa,
piacere e giustizia fa in ogni cosa.

Non ti turbar per cosa che tu vegga,
sì che in giustizia far non fosse errante:
l'altrui fallizie in te virtù non spenga:
s'alcun si duol non ne mutar sembiante,
. . . . . . . . . .
che non è sanza pace
e giustizia verace;
e l'uom che l'ira tiene
vero conoscimento non mantiene.

Ordina il vero della tua famiglia
sì ch'abbi il suo bisogno la natura:
e secondo il salaro l'assottiglia
che troppo e poco non sconci: misura
e tempo e modo d'avere procura;
veduto è dell'assai
aver tormento e guai,
e del poco ordinato
venir letizia, per tal modo, e stato.

Paia tua faccia e 'l viso sempre chiaro
a mensa, e non garrir per masserizia:
sovente el vino dolce 'venta amaro,
quando chi 'l dà ne dimostra tristizia;
se poc' ha' ispenditore in avarizia,
o per la spesa larga
contra dovere isparga,
e aveditene a mensa,
in altro loco d'amendarlo pensa.

Quando bisogna, fa ciascun servire,
secondo e gradi, a mensa, in ogni loco:
dimolte cose, ch'a viltà t'è dire,
falle 'l donzello e 'l berroviere e 'l cuoco:
lo proveder bisogna è cosa poca
e fan per te onore;
se mancan di signore
è talor troppo danno:
credi ch'i' so come le cose vanno.

Ricorda all'offizial che fermo credi
che 'n tutto sia leal suo portamento:
sollecito lo fa, ispesso lo vedi;
gli famigliar, fatto 'l comandamento,
prima ch'a Dio non faccian spiacimento,
secondo suo timore,
a te facciano onore:
amico mio, fratello,
l'un l'altro mischia non facci con ello.

Strigni che gioco né furto si faccia
in casa, e nollo rompan con puttane:
fuor modo el mormorio in tutto si faccia
onde procedon solo cose vane:
e tu provedi di sira e da mane,
e fredda lor bisogne
secondo ragion pogne:
mira poi più cagione:
a chi fallasse, dagli punigione.

Tenga ciascun sue arme apparecchiate,
sia presto ov'è bisogna d'ubbidire,
per esseguir le cose comandate;
sanza persona singular servire,
a lor non si potrebbe tanto dire;
ma chi non vuol far male,
viva netto e leale;
non può far se non bene,
e se altro fa, non merita gran pene.

Ultimamente, s'ordini e disponi,
fa ch'a te stesso non sie mentitore,
e fa d'aver onore, e 'l cor proponi:
fa che dell'ordin sia el mantenitore.
Saranne per ragion guadagnatore
s'al buon consiglio credi
e di sé ti provvedi:
però che ciò facendo
a casa tornerai d'amor godendo.


43

SONETTO DI MESSER GIOVANNI BOCCACCI DOVE IN PERSONA D'ANIBALLE PARLA A SCIPIONE INANZI CHE COMBATTESSONO, QUANDO PARLAMENTARONO


I ciel, gl'iddii, l'età e la fortuna,
secondo ai tuoi disiri, Iscipione,
ti tiran forse fuor d'ogni ragione
a non voler con noi concordia alcuna.

Ma se le mie vittorie ad una ad una
narrassi e la presente condizione,
forse porresti giù l'oppenione,
che splendida ti mostra la via bruna.

E vorresti più tosto certa pace
che speranza seguir talor fallace.

Risposta di Scipione ad Anibale per messer Giovan detto

Anibale, le paci che rompesti
dislealmente a Sagunto mi fanno
certo che per punire il tuo inganno
arò gl'iddii alla mia gloria presti.

E come allora pace non volesti,
ancora a Roma servir ti faranno;
così acquistan color che non sanno
ne' lor tempi felici esser modesti.

Com'io t'ho qui d'Italia tirato,
così penso por fine al tuo stato.


44


Disposto sum, fin che l'ontosa morte
verrà per me, servir sta ninfa bella
e comportar il mal che mi flagella,
mentre che a tempo lei più nol comporte.

Lucea costei più che diana stella
quando me chiuse in le amorose porte,
per farme, ancor sedendo, gir sì forte
ch'io voli qual per vento navicella.

Qual ciel adunche, o qual spietati dei
mi negarano al fin qualche buon frutto,
s'io farò tutto ciò che piace a lei?

Ma cum' vole si sia; io son del tutto
disposto a soffrir sempre per costei
poi che Amor a servirla m'ha condutto.


45


A dir che siate bella
scemo le vostre lode,
madonna, e mi riprende ognun che m'ode.
Nome non ci è conforme a quel che sete,
non so che cosa avete
più dell'uman, più del divin ancora:
li capegli d'aurora,
gli occhi del sole e 'l volto della luna,
e se bellezza alcuna
imaginar si può che non si vede,
chiar si dimostra in voi ch'ogni altra eccede:
né più bella di voi esser potria
Beltà s'avesse forma o Leggiadria.


46


Cresce la fiamma mia pur ch'io vi miri,
o mio bel sol, da cui mia vita pende,
né luce altra per me fra noi risplende
tosto ch'avien ch'in voi questi occhi giri.

E fiano eterni gli alti miei desiri,
sì come eterno è il ben, ch'il cor m'incende.
Santo Amor ch'a sì degno obietto intende
alzar la mente e movere i sospiri.

Come, dunque, che scemi o per nuova esca
in me fuoco d'Amor s'accenda mai,
nel pensier vostro si gran dubio nacque?

Torbidi e freddi avrà ben prima i rai
il sol, che quell'ardor del petto m'esca,
a cui me stesso consacrar mi piacque.


47


Amor, che l'alme sì congiungi e i cori,
che sol un cor e un'alma son gli amanti,
Amor, che gli aspri affanni e i rei dolori
rivolger fai in piacer, seccare i pianti,
Amor, ch'accendi con soavi ardori
i freddi petti e spezzi gli adamanti
. . . intenerissi (?), accend . . .
al duro(?) cor (?) chi m'ha . . .
* * * * * * * * * * * * * *


48


Mentre virtù de' bei vostri occhi sente,
arde ogn'alma gentil d'onesto amore,
tanto e sì puro è il lor vivo splendore,
il qual basso desir mai non consente.

Le voci poi se con l'orecchie intese
dall'angelica bocca ode uscir fore,
a voi sola volgendo i sensi e il core,
tutta d'alti pensier s'empie la mente.

Ogni vostro atto con mirabil arte
l'anime lega e rende l'uom felice:
oh grazia altrui non data in terra mai!

Ma chi rimira la divina parte
è fatto cieco al fine, e seco dice:
«In sole ardente, lasso, m'affissai».


49


Oh come son talora
maravigliosi in noi,
Amor, gl'incendii tuoi!
Con accorciato crin, succinta in gonna,
innamorata donna
seguì del suo fedel l'orme leggiadre
fra bellicose squadre.
Ma così gran valore
nelle donne moderne or non si vede,
ché, s'han maggior bellezza, han minor fede.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giovanni Boccaccio - Tutte le opere", a cura di Vittore Branca, Mondadori, Milano, 1992







Giovanni Boccaccio - Opera Omnia  -  a cura de ilVignettificio  -  Privacy & cookie  -   SITI AMICI: Cavalcanti Opera Omnia

w3c xhtml validation w3c css validation