Giovanni Boccaccio - Opera Omnia >> Decameron |
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ilboccaccio testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere storiche in prosa e versi, giovanni bocaccio, boccacio, operaomnia # INCOMINCIA LA DECIMA E ULTIMA GIORNATA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI PANFILO, SI RAGIONA DI CHI LIBERALMENTE O VERO MAGNIFICAMENTE ALCUNA COSA OPERASSE INTRONO A' FATTI D'AMORE O D'ALTRA COSA. [ INTRODUZIONE ] Ancora eran vermigli certi nuvoletti nell'occidente, essendo già quegli dello oriente nelle loro estremità simili a oro lucentissimi divenuti per li solari raggi che molto loro avvicinandosi li ferieno, quando Panfilo, levatosi, le donne e' suoi compagni fece chiamare. E venuti tutti, con loro insieme diliberato del dove andar potessero al lor diletto, con lento passo si mise innanzi accompagnato da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli; e molte cose della loro futura vita insieme parlando e dicendo e rispondendo, per lungo spazio s'andaron diportando; e data una volta assai lunga, cominciando il sole già troppo a riscaldare, al palagio si ritornarono. E quivi dintorno alla chiara fonte, fatti risciacquare i bicchieri, chi volle alquanto bevve, e poi fra le piacevoli ombre del giardino infino a ora di mangiare s'andarono sollazzando. E poi ch'ebber mangiato e dormito, come far soleano, dove al re piacque si ragunarono, e quivi il primo ragionamento comandò il re a Neifile; la quale lietamente così cominciò. NOVELLA PRIMA Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia certissima gli mostra non esser colpa di lui ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi. -- Grandissima grazia, onorabili donne, reputar mi debbo, che il nostro re me a tanta cosa, come è a raccontar della magnificenzia, m'abbia preposta, la quale, come il sole è di tutto il cielo bellezza e ornamento, è chiarezza e lume di ciascuna altra virtù. Dironne adunque una novelletta, assai leggiadra al mio parere, la quale rammemorarsi per certo non potrà esser se non utile. Dovete adunque sapere che, tra gli altri valorosi cavalieri che da gran tempo in qua sono stati nella nostra città, fu un di quegli e forse il più da bene, messer Ruggieri de Figiovanni; il quale essendo e ricco e di grande animo, e veggendo che, considerata la qualità del vivere e de' costumi di Toscana, egli, in quella dimorando, poco o niente potrebbe del suo valor dimostrare, prese per partito di volere un tempo essere appresso a Anfonso re d'Ispagna, la fama del valore del quale quella di ciascun altro signor trapassava a que'tempi. E assai onorevolmente in arme e in cavalli e in compagnia a lui se n'andò in Ispagna, e graziosamente fu dal re ricevuto. Quivi adunque dimorando messer Ruggieri, e splendidamente vivendo, e in fatti d'arme maravigliose cose faccendo, assai tosto si fece per valoroso cognoscere. E essendovi già buon tempo dimorato, e molto alle maniere del re riguardando, gli parve che esso ora a uno e ora a un altro donasse castella e città e baronie assai poco discretamente, sì come dandole a chi nol valea; e per ciò che a lui, che da quello che egli era si teneva, niente era donato, estimò che molto ne diminuisse la fama sua; per che di partirsi diliberò, e al re domandò commiato. Il re gliele concedette, e donogli una delle miglior mule che mai si cavalcasse e la più bella, la quale per lo lungo cammino che a fare avea, fu cara a messer Ruggieri. Appresso questo, commise il re a un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli paresse, s'ingegnasse di cavalcare la prima giornata con messer Ruggieri, in guisa che egli non paresse dal re mandato, e ogni cosa che egli dicesse di lui raccogliesse, sì che ridire gliele sapesse, e l'altra mattina appresso gli comandasse che egli indietro al re tornasse. Il famigliare, stato attento, come messer Ruggieri uscì della terra, così assai acconciamente con lui si fu accompagnato, dandogli a vedere che egli veniva verso Italia. Cavalcando adunque messer Ruggieri sopra la mula dal re datagli, e con costui d'una cosa e d'altra parlando, essendo vicino a ora di terza, disse: « Io credo che sia ben fatto che noi diamo stalla a queste bestie. » E entrati in una stalla, tutte l'altre, fuor che la mula, stallarono. Per che cavalcando avanti, stando sempre il famiglio attento alle parole del cavaliere, vennero a un fiume, e quivi abbeverando le lor bestie, la mula stallò nel fiume. Il che veggendo messer Ruggieri, disse: « Deh! dolente ti faccia Dio, bestia, ché tu se'fatta come il signore che a me ti donò. » Il famigliare questa parola ricolse, e come che molte ne ricogliesse camminando tutto il dì seco, niun'altra, se non in somma lode del re, dirne gli udì: per che la mattina seguente, montati a cavallo e volendo cavalcare verso Toscana, il famigliare gli fece il comandamento del re, per lo quale messer Ruggieri incontanente tornò addietro. E avendo già il re saputo quello che egli della mula aveva detto, fattolsi chiamar con lieto viso il ricevette, e domandollo perché lui alla sua mula avesse assomigliato, ovvero la mula a lui. Messer Ruggieri con aperto viso gli disse: « Signor mio, per ciò ve l'assomigliai, perché, come voi donate dove non si conviene, e dove si converrebbe non date, così ella dove si conveniva non stallò, e dove non si convenia sì. » Allora disse il re: « Messer Ruggieri, il non avervi donato, come fatto ho a molti, li quali a comparazion di voi da niente sono, non è avvenuto perché io non abbia voi valorosissimo cavalier conosciuto e degno d'ogni gran dono, ma la vostra fortuna, che lasciato non m'ha, in ciò ha peccato e non io; e che io dica vero, io il vi mosterrò manifestamente. » A cui messer Ruggieri rispose: « Signor mio, io non mi turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che io nol desiderava per esser più ricco, ma del non aver voi in alcuna cosa testimonianza renduta alla mia virtù; nondimeno io ho la vostra per buona scusa e per onesta, e son presto di veder ciò che vi piacerà, quantunque io vi creda senza testimonio. » Menollo adunque il re in una sua gran sala, dove, sì come egli davanti aveva ordinato, erano due gran forzieri serrati, e in presenzia di molti gli disse: « Messer Ruggieri, nell'uno di questi forzieri è la mia corona, la verga reale e 'l pomo, e molte mie belle cinture, fermagli, anella e ogn'altra cara gioia che io ho; l'altro è pieno di terra: prendete adunque l'uno, e quello che preso avrete sì sia vostro, e potrete vedere chi è stato verso il vostro valore ingrato, o io o la vostra fortuna. » Messer Ruggieri, poscia che vide così piacere al re, prese l'uno, il quale il re comandò che fosse aperto, e trovossi esser quello che era pien di terra. Laonde il re ridendo disse: « Ben potete vedere, messer Ruggieri, che quello è vero che io vi dico della fortuna; ma certo il vostro valor merita che io m'opponga alle sue forze. Io so che voi non avete animo di divenire spagnuolo, e per ciò non vi voglio qua donare né castel né città, ma quel forziere che la fortuna vi tolse, quello in dispetto di lei voglio che sia vostro, acciò che nelle vostre contrade nel possiate portare, e della vostra virtù con la testimonianza de' miei doni meritamente gloriar vi possiate co' vostri vicini. » Messer Ruggieri presolo, e quelle grazie rendute al re che a tanto dono si confaceano, con esso lieto se ne ritornò in Toscana. -- NOVELLA SECONDA Ghino di Tacco piglia l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale. Lodata era già stata da tutti la magnificenzia del re Anfonso nel fiorentin cavaliere usata, quando il re, al quale molto era piaciuta, a Elissa impose che seguitasse, la quale prestamente incominciò: -- Dilicate donne, l'essere stato un re magnifico, e l'avere la sua magnificenzia usata verso colui che servito l'avea, non si può dire che laudevole e gran cosa non sia; ma che direm noi se si racconterà un cherico aver mirabil magnificenzia usata verso persona che, se inimicato l'avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? Certo non altro se non che quella del re fosse virtù, e quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo più che le femine sieno, e d'ogni liberalità nimici a spada tratta. E quantunque ogn'uomo naturalmente appetisca vendetta delle ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque la pazienzia predichino e sommamente la remission delle offese commendino, più focosamente che gli altri uomini a quella discorrono. La qual cosa, cioè come un cherico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto. Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de' conti di Santa Fiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a' suoi masnadieri. Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l'abate di Clignì, il quale si crede essere un de' più ricchi prelati del mondo, e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da' medici consigliato che egli andasse a' bagni di Siena, e guerirebbe senza fallo. Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con grandissima pompa d'arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino. Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti, e, senza perderne un sol ragazzetto, l'abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse. E questo fatto, un de' suoi, il più saccente, bene accompagnato mandò allo abate; il qual da parte di lui assai amorevolmente gli disse, che gli dovesse piacere d'andare a smontare con esso Ghino al castello. Il che l'abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino niente aveva a fare; ma che egli andrebbe avanti, e vorrebbe veder chi l'andar gli vietasse. Al quale l'ambasciadore umilmente parlando disse: « Messere, voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl'interdetti sono scomunicati tutti; e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo. » Era già, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circundato; per che l'abate, co' suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l'ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui; e smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d'un palagio assai oscura e disagiata, e ogn'altro uomo secondo la sua qualità per lo castello fu assai bene adagiato, e i cavalli e tutto l'arnese messo in salvo, senza alcuna cosa toccarne. E questo fatto, se n'andò Ghino all'abate e dissegli: « Messere, Ghino, di cui voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significarli dove voi andavate, e per qual cagione. » L'abate che, come savio, aveva l'altierezza giù posta, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno; e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina; e allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dello abate medesimo, e sì disse all'abate: « Messer, quando Ghino era più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi. » L'abate, che maggior fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di molte domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle, parte ne lasciò andar sì come vane, e a alcuna assai cortesemente rispose, affermando che come Ghino più tosto potesse il visiterebbe; e questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia; e così il tenne più giorni, tanto che egli s'accorse l'abate aver mangiate fave secche, le quali egli studiosamente e di nascoso portate v'aveva e lasciate. Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l'abate rispose: « A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; e appresso questo, niun altro talento ho maggiore che di mangiare, sì ben m'hanno le sue medicine guerito. » Ghino adunque, avendogli de' suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n'andò la mattina seguente e dissegli: « Messere, poi che voi ben vi sentite, tempo è d'uscire d'infermeria »; e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co' suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese. L'abate co' suoi alquanto si ricreò, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino. Ma l'ora del mangiar venuta, l'abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all'abate conoscere. Ma poi che l'abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi arnesi fatti venire, e in una corte, che di sotto a quella era, tutti i suoi cavalli in fino al più misero ronzino allo abate se n'andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare. A cui l'abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino. Menò allora Ghino l'abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo a una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: « Messer l'abate, voi dovete sapere che l'esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, e avere molti e possenti nimici, hanno, per potere la sua vita e la sua nobiltà difendere, e non malvagità d'animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, a essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito, come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse; ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte e il tutto come vi piace prendete, a da questa ora innanzi sia e l'andare e lo stare nel piacer vostro. » Maravigliossi l'abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse a abbracciar dicendo: « Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l'amistà d'uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m'è che tu m'abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole mestier ti costrigne! E appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime e opportune prendere, e de' cavalli similmente, e l'altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò. » Aveva il papa saputa la presura dello abate e, come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser pro. Al quale l'abate sorridendo rispose: « Santo Padre, io trovai più vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m'ha; e contogli il modo; di che il papa rise. Al quale l'abate, seguitando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia. » Il Papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse. Allora l'abate disse: « Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de' più; e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la qual se voi con alcuna cosa dandogli, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare. » Il Papa, udendo questo, sì come colui che di grande animo fu e vago de' valenti uomini, disse di farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse. -- NOVELLA TERZA Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui e, da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto come ordinato avea; il quale riconoscendolo si vergogna e suo amico diviene. Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti avere udito, cioè che un cherico alcuna cosa magnificamente avesse operata; ma riposandosene già il ragionare delle donne, comandò il re a Filostrato che procedesse, il quale prestamente incominciò: -- Nobili donne, grande fu la magnificenzia del re di Spagna, e forse cosa più non udita giammai quella dell'abate di Clignì; ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrà l'udire che uno, per liberalità usare a un altro che il suo sangue, anzi il suo spirito, disiderava, cautamente a dargliele si disponesse; e fatto l'avrebbe, se colui prender l'avesse voluto, sì come io in una mia novelletta intendo di dimostrarvi. Certissima cosa è, se fede si può dare alle parole d'alcuni genovesi e d'altri uomini che in quelle contrade stati sono, che nelle parti del Cattaio fu già uno uomo di legnaggio nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan; il quale, avendo un suo ricetto vicino a una strada per la qual quasi di necessità passava ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di Levante venire in Ponente, e avendo l'animo grande e liberale e disideroso che fosse per opera conosciuto, quivi, avendo molti maestri, fece in piccolo spazio di tempo fare un de' più belli e de' maggiori e de' più ricchi palagi che mai fosse stato veduto, e quello di tutte quelle cose che opportune erano a dovere gentili uomini ricevere e onorare, fece ottimamente fornire; e avendo grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa chiunque andava e veniva faceva ricevere e onorare. E in tanto perseverò in questo laudevol costume, che già, non solamente il Levante, ma quasi tutto il Ponente per fama il conoscea. E essendo egli già d'anni pieno, né però del corteseggiar divenuto stanco, avvenne che la sua fama agli orecchi pervenne d'un giovane chiamato Mitridanes, di paese non guari al suo lontano; il quale, sentendosi non meno ricco che Natan fosse, divenuto della sua fama e della sua virtù invidioso, seco propose con maggior liberalità quella o annullare o offuscare. E fatto fare un palagio simile a quello di Natan, cominciò a fare le più smisurate cortesie che mai facesse alcuno altro, a chi andava o veniva per quindi, e senza dubbio in piccol tempo assai divenne famoso. Ora avvenne un giorno che dimorando il giovane tutto g solo nella corte del suo palagio, una feminella, entrata dentro per una delle porti del palagio, gli domandò limosina e ebbela; e ritornata per la seconda porta pure a lui, ancora l'ebbe, e così successivamente insino alla duodecima; e la tredecima volta tornata, disse Mitridanes: « Buona femina, tu se'assai sollicita a questo tuo dimandare »; e nondimeno le fece limosina. La vecchierella, udita questa parola, disse: « O liberalità di Natan, quanto se'tu maravigliosa! ché per trentadue porti che ha il suo palagio, sì come questo, entrata, e domandatagli limosina, mai da lui, che egli mostrasse, riconosciuta non fui, e sempre l'ebbi; e qui non venuta ancora se non per tredici, e riconosciuta e proverbiata sono stata. -- E così dicendo, senza più ritornarvi si dipartì. » Mitridanes, udite le parole della vecchia, come colui che ciò che della fama di Natan udiva diminuimento della sua estimava, in rabbiosa ira acceso, cominciò a dire: « Ahi lasso a me! Quando aggiugnerò io alla liberalità delle gran cose di Natan, non che io il trapassi, come io cerco, quando nelle piccolissime io non gli mi posso avvicinare? Veramente io mi fatico invano, se io di terra nol tolgo; la qual cosa, poscia che la vecchiezza nol porta via, convien senza alcuno indugio che io faccia con le mie mani. » E con questo impeto levatosi, senza comunicare il suo consiglio a alcuno, con poca compagnia montato a cavallo, dopo il terzo dì dove Natan dimorava pervenne; e a' compagni imposto che sembianti facessero di non esser con lui né di conoscerlo, e che distanzia si procacciassero infino che da lui altro avessero, quivi adunque in sul fare della sera pervenuto e solo rimaso, non guari lontano al bel palagio trovò Natan tutto solo, il quale senza alcuno abito pomposo andava a suo diporto; cui egli, non conoscendolo, domandò se insegnar gli sapesse dove Natan dimorasse. Natan lietamente rispose: « Figliuol mio, niuno è in questa contrada che meglio di me cotesto ti sappia mostrare, e per ciò, quando ti piaccia, io vi ti menerò. » Il giovane disse che questo gli sarebbe a grado assai; ma che, dove esser potesse, egli non voleva da Natan esser veduto né conosciuto. Al quale Natan disse: « E cotesto ancora farò, poi che ti piace. » Ismontato adunque Mitridanes con Natan, che in piacevolissimi ragionamenti assai tosto il mise, infino al suo bel palagio n'andò. Quivi Natan fece a un de' suoi famigliari prendere il caval del giovane, e accostatoglisi agli orecchi gl'impose che egli prestamente con tutti quegli della casa facesse che niuno al giovane dicesse lui esser Natan; e così fu fatto. Ma poi che nel palagio furono, mise Mitridanes in una bellissima camera dove alcuno nol vedeva, se non quegli che egli al suo servigio diputati avea, e sommamente faccendolo onorare, esso stesso gli tenea compagnia. Col quale dimorando Mitridanes, ancora che in reverenzia come padre l'avesse, pur lo domandò chi el fosse. Al quale Natan rispose: « Io sono un picciol servidor di Natan, il quale dalla mia fanciullezza con lui mi sono invecchiato, né mai a altro che tu mi vegghi mi trasse, per che, come che ogni altro uomo molto di lui si lodi, io me ne posso poco lodare io. » Queste parole porsero alcuna speranza a Mitridanes di potere con più consiglio e con più salvezza dare effetto al suo perverso intendimento. Il qual Natan assai cortesemente domandò chi egli fosse, e qual bisogno per quindi il portasse, offerendo il suo consiglio e il suo aiuto in ciò che per lui si potesse. Mitridanes soprastette alquanto al rispondere, e ultimamente diliberando di fidarsi di lui, con una lunga circuizion di parole la sua fede richiese, e appresso il consiglio e l'aiuto, e chi egli era e per che venuto e da che mosso, interamente gli discoperse. Natan, udendo il ragionare e il fiero proponimento di Mitridanes, in sé tutto si cambiò, ma senza troppo stare, con forte animo e con fermo viso gli rispose: « Mitridanes, nobile uomo fu il tuo padre, dal quale tu non vuogli degenerare, sì alta impresa avendo fatta come hai, cioè d'essere liberale a tutti, e molto la invidia che alla virtù di Natan porti commendo, per ciò che, se di così fatte fossero assai, il mondo, che è miserissimo, tosto buon diverrebbe. Il tuo proponimento mostratomi senza dubbio sarà occulto, al quale io più tosto util consiglio che grande aiuto posso donare, il quale è questo. Tu puoi di quinci vedere forse un mezzo miglio vicin di qui un boschetto, nel quale Natan quasi ogni mattina va tutto solo, prendendo diporto per ben lungo spazio; quivi leggier cosa ti fia il trovarlo e farne il tuo piacere. Il quale se tu uccidi, acciò che tu possa senza impedimento a casa tua ritornare, non per quella via donde tu qui venisti, ma per quella che tu vedi a sinistra uscir fuor del bosco n'andrai, per ciò che, ancora che un poco più salvatica sia, ella è più vicina a casa tua e per te più sicura. » Mitridanes, ricevuta la informazione e Natan da lui essendo partito, cautamente a' suoi compagni, che similmente là entro erano, fece sentire dove aspettare il dovessero il dì seguente. Ma, poi che il nuovo dì fu venuto, Natan, non avendo animo vario al consiglio dato a Mitridanes, né quello in parte alcuna mutato, solo se n'andò al boschetto a dover morire. Mitridanes, levatosi e preso il suo arco e la sua spada, ché altra arme non avea, e montato a cavallo, n'andò al boschetto, e di lontano vide Natan tutto soletto andar passeggiando per quello, e diliberato, avanti che l'assalisse, di volerlo vedere e d'udirlo parlare, corse verso lui, e presolo per la benda la quale in capo avea, disse: « Vegliardo, tu se'morto. » Al quale niuna altra cosa rispose Natan, se non: « Dunque, l'ho io meritato. » Mitridanes, udita la voce e nel viso guardatolo, subitamente riconobbe lui esser colui che benignamente l'avea ricevuto e familiarmente accompagnato e fedelmente consigliato; per che di presente gli cadde il furore e la sua ira si convertì in vergogna. Laonde egli, gittata via la spada, la qual già per ferirlo aveva tirata fuori, da caval dismontato, piagnendo corse a' piè di Natan e disse: « Manifestamente conosco, carissimo padre, la vostra liberalità, riguardando con quanta cautela venuto siate per darmi il vostro spirito, del quale io, niuna ragione avendo, a voi medesimo disideroso mostra'mi; ma Idio, più al mio dover sollicito che io stesso, a quel punto che maggior bisogno è stato gli occhi m'ha aperto dello 'ntelletto, li quali misera invidia m'avea serrati. E per ciò quanto voi più pronto stato siete a compiacermi, tanto più mi cognosco debito alla penitenzia del mio errore; prendete adunque di me quella vendetta che convenevole estimate al mio peccato. » Natan fece levar Mitridanes in piede e teneramente l'abbracciò e basciò e gli disse: « Figliuol mio, alla tua impresa, chente che tu la vogli chiamare o malvagia o altrimenti, non bisogna di domandar né di dar perdono, per ciò che non per odio la seguivi, ma per potere essere tenuto migliore. Vivi adunque di me sicuro, e abbi di certo che niuno altro uom vive, il quale te quant'io ami, avendo riguardo all'altezza dello animo tuo, il quale non a ammassar denari, come i miseri fanno, ma a ispender gli ammassati se'dato. Né ti vergognare d'avermi voluto uccidere per divenir famoso, né credere che io me ne maravigli. I sommi imperadori e i grandissimi re non hanno quasi con altra arte che d'uccidere, non uno uomo come tu volevi fare, ma infiniti, e ardere paesi e abbattere le città, li loro regni ampliati, e per conseguente la fama loro; per che, se tu per più farti famoso me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova facevi, ma molto usata. » Mitridanes, non iscusando il suo disidero perverso, ma commendando l'onesta scusa da Natan trovata a esso, ragionando pervenne a dire sé oltre modo maravigliarsi come a ciò si fosse Natan potuto disporre e a ciò dargli modo e consiglio. Al quale Natan disse: « Mitridanes, io non voglio che tu del mio consiglio e della mia disposizione ti maravigli, per ciò che, poi che io nel mio albitrio fui, e disposto a fare quello medesimo che tu hai a fare impreso, niun fu che mai a casa mia capitasse, che io nol contentasse a mio potere di ciò che da lui mi fu domandato. Venistivi tu vago della mia vita, per che, sentendolati domandare, acciò che tu non fossi solo colui che senza la sua dimanda di qui si partisse, prestamente diliberai di donarlati, e acciò che tu l'avessi, quel consiglio ti diedi che io credetti che buon ti fosse a aver la mia e non perder la tua; e per ciò ancora ti dico e priego che, s'ella ti piace, che tu la prenda e te medesimo ne sodisfaccia: io non so come io la mi possa meglio spendere. Io l'ho adoperata già ottanta anni, e ne'miei diletti e nelle mie consolazioni usata; e so che, seguendo il corso della natura, come gli altri uomini fanno e generalmente tutte le cose, ella mi può omai piccol tempo esser lasciata; per che io giudico molto meglio esser quella donare, come io ho sempre i miei tesori donati e spesi, che tanto volerla guardare, che ella mi sia contro a mia voglia tolta dalla natura. Piccol dono è donare cento anni; quanto adunque è minor donarne sei o otto che io a star ci abbia? Prendila adunque, se ella t'aggrada, io te ne priego; per ciò che, mentre vivuto ci sono, niuno ho ancor trovato che disiderata l'abbia, né so quando trovar me ne possa veruno, se tu non la prendi che la dimandi. E se pure avvenisse che io ne dovessi alcun trovare, conosco che, quanto più la guarderò, di minor pregio sarà; e però, anzi che ella divenga più vile, prendila, io te ne priego. » Mitridanes, vergognandosi forte, disse: « Tolga Idio che così cara cosa come la vostra vita è, non che io, da voi dividendola, la prenda, ma pur la disideri, come poco avanti faceva; alla quale non che io diminuissi gli anni suoi, ma io l'aggiugnerei volentier de' miei, se io potessi. » A cui prestamente Natan disse: « E, se tu puoi, vuo'nele tu aggiugnere, e farai a me fare verso di te quello che mai verso alcuno altro non feci, cioè delle tue cose pigliare, che mai dell'altrui non pigliai? » « Sì » disse subitamente Mitridanes. « Adunque » disse Natan « farai tu come io ti dirò. Tu ti rimarrai, giovane come tu se', qui nella mia casa, e avrai nome Natan, e io me n'andrò nella tua e farommi sempre chiamar Mitridanes. » Allora Mitridanes rispose: « Se io sapessi così bene operare come voi sapete e avete saputo, io prenderei senza troppa diliberazione quello che m'offerete; ma per ciò che egli mi pare esser molto certo che le mie opere sarebbon diminuimento della fama di Natan, e io non intendo di guastare in altrui quello che in me io non acconciare nol prenderò. » Questi e molti altri piacevoli ragionamenti stati tra Natan e Mitridanes, come a Natan piacque, insieme verso il palagio se ne tornarono, dove Natan più giorni sommamente onorò Mitridanes, e lui con ogni ingegno e saper confortò nel suo alto e grande proponimento. E volendosi Mitridanes con la sua compagnia ritornare a casa, avendogli Natan assai ben fatto conoscere che mai di liberalità nol potrebbe avanzare, il licenziò. -- NOVELLA QUARTA Messer Gentil de' Carisendi, venuto da Modona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta; la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio, e Messer Gentile lei e 'l figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico marito di lei. Maravigliosa cosa parve a tutti che alcuno del propio sangue fosse liberale; e veramente affermaron Natan aver quella del re di Spagna e dello abate di Clignì trapassata. Ma poi che assai e una cosa e altra detta ne fu, il re, verso Lauretta riguardando, le dimostrò che egli desiderava che ella dicesse; per la qual cosa Lauretta prestamente incominciò: -- Giovani donne, magnifiche cose e belle sono state le raccontate, né mi pare che alcuna parte restata sia a noi che abbiamo a dire, per la qual novellando vagar possiamo, sì son tutte dall'altezza delle magnificenzie raccontate occupate, se noi ne'fatti d'amore già non mettessimo mano, li quali a ogni materia prestano abbondantissima copia di ragionare; e per ciò, sì per questo e sì per quello a che la nostra età principalmente ci dee inducere, una magnificenzia da uno innamorato fatta mi piace di raccontarvi, la quale, ogni cosa considerata, non vi parrà per avventura minore che alcune delle mostrate, se quello è vero che i tesori si donino, le inimicizie si dimentichino, e pongasi la propia vita, l'onore e la fama, ch'è molto più, in mille pericoli, per potere la cosa amata possedere. Fu adunque in Bologna, nobilissima città di Lombardia, un cavaliere per virtù e per nobiltà di sangue ragguardevole assai, il qual fu chiamato messer Gentil Carisendi, il qual giovane d'una gentil donna chiamata madonna Catalina, moglie d'un Niccoluccio Caccianimico, s'innamorò; e perché male dello amor della donna era, quasi disperatosene, podestà chiamato di Modona, v'andò. In questo tempo, non essendo Niccoluccio a Bologna, e la donna a una sua possessione, forse tre miglia alla terra vicina, essendosi, per ciò che gravida era, andata a stare, avvenne che subitamente un fiero accidente la soprapprese, il quale fu tale e di tanta forza, che in lei spense ogni segno di vita, e per ciò eziandio da alcun medico morta giudicata fu; e per ciò che le sue più congiunte parenti dicevan sé avere avuto da lei non essere ancora di tanto tempo gravida, che perfetta potesse essere la creatura, senza altro impaccio darsi, quale ella era, in uno avello d'una chiesa ivi vicina dopo molto pianto la sepellirono. La qual cosa subitamente da un suo amico fu significata a messer Gentile, il qual di ciò, ancora che della sua grazia fosse poverissimo, si dolfe molto, ultimamente seco dicendo: « Ecco, madonna Catalina, tu se'morta; io, mentre che vivesti, mai un solo sguardo da te aver non potei; per che, ora che difender non ti potrai, convien per certo che, così morta come tu se'io alcun bacio li tolga. » E questo detto, essendo già notte, dato ordine come la sua andata occulta fosse, con un suo famigliare montato a cavallo, senza ristare colà pervenne dove sepellita era la donna, e aperta la sepoltura, in quella diligentemente entrò, e postolesi a giacere allato, il suo viso a quello della donna accostò, e più volte con molte lagrime piagnendo il baciò. Ma, sì come noi veggiamo l'appetito degli uomini a niun termine star contento, ma sempre più avanti desiderare, e spezialmente quello degli amanti, avendo costui seco diliberato di più non starvi, disse: « Deh! perché non le tocco io, poi che io son qui, un poco il petto? Io non la debbo mai più toccare, né mai più la toccai. » Vinto adunque da questo appetito, le mise la mano in seno, e per alquanto spazio tenutalavi, gli parve sentire alcuna cosa battere il cuore a costei. Il quale, poi che ogni paura ebbe cacciata da sé, con più sentimento cercando, trovò costei per certo non esser morta, quantunque poca e debole estimasse la vita; per che soavemente quanto più potè, dal suo famigliare aiutato, del monimento la trasse, e davanti al caval messalasi, segretamente in casa sua la condusse in Bologna. Era quivi la madre di lui, valorosa e savia donna, la qual, poscia che dal figliuolo ebbe distesamente ogni cosa udita, da pietà mossa, chetamente con grandissimi fuochi e con alcun bagno in costei rivocò la smarrita vita. La quale come rivenne, così la donna gittò un gran sospiro e disse: « Oimè! ora ove sono io? » A cui la valente donna rispose: « Confortati, tu se'in buon luogo. » Costei, in sé tornata e dintorno guardandosi, non bene conoscendo dove ella fosse e veggendosi davanti messer Gentile, piena di maraviglia la madre di lui pregò che le dicesse in che guisa ella quivi venuta fosse; alla quale messer Gentile ordinatamente contò ogni cosa. Di che ella, dolendosi, dopo alquanto quelle grazie gli rendè che ella potè e appresso il pregò per quello amore il quale egli l'aveva già portato, e per cortesia di lui, che in casa sua ella da lui non ricevesse cosa che fosse meno che onor di lei e del suo marito, e come il dì venuto fosse, alla sua propria casa la lasciasse tornare. Alla quale messer Gentile rispose: « Madonna, chente che il mio disiderio si sia stato ne'tempi passati, io non intendo al presente né mai per innanzi (poi che Idio m'ha questa grazia conceduta che da morte a vita mi v'ha renduta, essendone cagione l'amore che io v'ho per addietro portato) di trattarvi né qui né altrove, se non come cara sorella; ma questo mio beneficio, operato in voi questa notte, merita alcun guiderdone; e per ciò io voglio che voi non mi neghiate una grazia la quale io vi domanderò. » Al quale la donna benignamente rispose sé essere apparecchiata, solo che ella potesse, e onesta fosse. Messer Gentile allora disse: « Madonna, ciascun vostro parente e ogni bolognese credono e hanno per certo voi esser morta, per che niuna persona è la quale più a casa v'aspetti; e per ciò io voglio di grazia da voi, che vi debbia piacere di dimorarvi tacitamente qui con mia madre infino a tanto che io da Modona torni, che sarà tosto. E la cagione per che io questo vi cheggio è per ciò che io intendo di voi, in presenzia de' migliori cittadini di questa terra, fare un caro e uno solenne dono al vostro marito. » La donna, conoscendosi al cavaliere obbligata, e che la domanda era onesta, quantunque molto disiderasse di rallegrare della sua vita i suoi parenti, si dispose a far quello che messer Gentile domandava; e così sopra la sua fede gli promise. E appena erano le parole della sua risposta finite, che ella sentì il tempo del partorire esser venuto; per che, teneramente dalla madre di messer Gentile aiutata, non molto stante partorì un bel figliuol maschio; la qual cosa in molti doppi moltiplicò la letizia di messer Gentile e di lei. Messer Gentile ordinò che le cose opportune tutte vi fossero, e che così fosse servita costei come se sua propia moglie fosse, e a Modona segretamente se ne tornò. Quivi fornito il tempo del suo uficio e a Bologna dovendosene tornare, ordinò, quella mattina che in Bologna entrar doveva, di molti e gentili uomini di Bologna, tra'quali fu Niccoluccio Caccianimico, un grande e bel convito in casa sua; e tornato e ismontato e con lor trovatosi, avendo similmente la donna ritrovata più bella e più sana che mai, e il suo figlioletto star bene, con allegrezza incomparabile i suoi forestieri mise a tavola, e quegli fece di più vivande magnificamente servire. E essendo già vicino alla sua fine il mangiare, avendo egli prima alla donna detto quello che di fare intendeva e con lei ordinato il modo che dovesse tenere, così cominciò a parlare: « Signori, io mi ricordo avere alcuna volta inteso in Persia essere, secondo il mio giudicio, una piacevole usanza, la quale è che, quando alcuno vuole sommamente onorare il suo amico, egli lo 'nvita a casa sua e quivi gli mostra quella cosa, o moglie o amica o figliuola o che che si sia, la quale egli ha più cara, affermando che, se egli potesse, così come questo gli mostra, molto più volentieri gli mosterria il cuor suo; la quale io intendo di volere osservare in Bologna. Voi, la vostra mercé, avete onorato il mio convito, e io intendo onorar voi alla persesca, mostrandovi la più cara cosa che io abbia nel mondo o che io debbia aver mai. Ma prima che io faccia questo, vi priego mi diciate quello che sentite d'un dubbio il quale io vi moverò. Egli è alcuna persona la quale ha in casa un suo buono e fedelissimo servidore, il quale inferma gravemente; questo cotale, senza attendere il fine del servo infermo, il fa portare nel mezzo della strada, né più ha cura di lui; viene uno strano, è mosso a compassione dello 'nfermo, e sel reca a casa, e con gran sollicitudine e con ispesa il torna nella prima sanità. Vorrei io ora sapere se, tenendolsi e usando i suoi servigi, il primo signore si può a buona equità dolere o ramaricare del secondo, se egli, raddomandandolo, rendere nol volesse. » I gentili uomini, fra sé avuti vari ragionamenti, e tutti in una sentenzia concorrendo, a Niccoluccio Caccianimico, per ciò che bello e ornato favellatore era, commisero la risposta. Costui, commendata primieramente l'usanza di Persia, disse sé con gli altri insieme essere in questa oppinione, che il primo signore niuna ragione avesse più nel suo servidore, poi che in sì fatto caso non solamente abbandonato, ma gittato l'avea; e che, per li benefici del secondo usati, giustamente parea di lui il servidore divenuto, per che, tenendolo, niuna noia, niuna forza, niuna ingiuria faceva al primiero. Gli altri tutti che alle tavole erano, ché v'avea di valenti uomini, tutti insieme dissono sé tener quello che da Niccoluccio era stato risposto. Il cavaliere, contento di tal risposta e che Niccoluccio l'avesse fatta, affermò sé essere in quella oppinione altressì, e appresso disse: « Tempo è omai che io secondo la promessa v'onori. » E chiamati due de' suoi famigliari, gli mandò alla donna, la quale egli egregiamente avea fatta vestire e ornare, e mandolla pregando che le dovesse piacere di venire a far lieti i gentili uomini della sua presenzia. La qual, preso in braccio il figliolin suo bellissimo, da' due famigliari accompagnata, nella sala venne, e come al cavalier piacque, appresso a un valente uomo si pose a sedere; e egli disse: « Signori, questa è quella cosa che io ho più cara e intendo d'avere, che alcun'altra; guardate se egli vi pare che io abbia ragione. » I gentili uomini, onoratola e commendatola molto, e al cavaliere affermato che cara la doveva avere, la cominciarono a riguardare; e assai ve n'eran che lei avrebbon detto colei chi ella era, se lei per morta non avessero avuta. Ma sopra tutti la riguardava Niccoluccio, il quale, essendosi alquanto partito il cavaliere, sì come colui che ardeva di sapere chi ella fosse, non potendosene tenere, la domandò se bolognese fosse o forestiera. La donna, sentendosi al suo marito domandare, con fatica di risponder si tenne; ma pur, per servare l'ordine postole, tacque. Alcun altro la domandò se suo era quel figlioletto, e alcuno se moglie fosse di messer Gentile, o in altra maniera sua parente; a' quali niuna risposta fece. Ma sopravvegnendo messer Gentile, disse alcun de' suoi forestieri: « Messere, bella cosa è questa vostra, ma ella ne par mutola: è ella così? » « Signori, » disse messer Gentile « il non avere ella al presente parlato è non piccolo argomento della sua virtù. » « Diteci adunque voi » seguitò colui « chi ella è. » Disse il cavaliere: « Questo farò io volentieri, sol che voi mi promettiate, per cosa che io dica, niuno doversi muovere del luogo suo fino a tanto che io non ho la mia novella finita. » Al quale avendol promesso ciascuno, e essendo già levate le tavole, messer Gentile allato alla donna sedendo, disse: « Signori, questa donna è quel leale e fedel servo, del quale io poco avanti vi fe' la dimanda; la quale da' suoi poco avuta cara, e così come vile e più non utile nel mezzo della strada gittata, da me fu ricolta, e con la mia sollicitudine e opera delle mani la trassi alla morte, e Idio, alla mia buona affezion riguardando, di corpo spaventevole così bella divenir me l'ha fatta. Ma acciò che voi più apertamente intendiate come questo avvenuto mi sia, brievemente vel farò chiaro. » E cominciatosi dal suo innamorarsi di lei, ciò che avvenuto era infino allora distintamente narrò con gran maraviglia degli ascoltanti, e poi soggiunse: « Per le quali cose, se mutata non avete sentenzia da poco in qua, e Niccoluccio spezialmente, questa donna meritamente è mia, né alcuno con giusto titolo me la può radomandare. » A questo niun rispose, anzi tutti attendevan quello che egli più avanti dovesse dire. Niccoluccio e degli altri che v'erano e la donna, di compassion lagrimavano; ma messer Gentile, levatosi in piè e preso nelle sue braccia il picciol fanciullino e la donna per la mano, e andato verso Niccoluccio, disse: « Leva su, compare, io non ti rendo tua mogliere, la quale i tuoi parenti e suoi gittarono via; ma io ti voglio donare questa donna mia comare con questo suo figlioletto, il quale io son certo che fu da te generato, e il quale io a battesimo tenni e nomina'lo Gentile; e priegoti che, perch'ella sia nella mia casa vicin di tre mesi stata, che ella non ti sia men cara; ché io ti giuro per quello Idio, che forse già di lei innamorar mi fece acciò che il mio amore fosse, sì come stato è, cagion della sua salute, che ella mai o col padre o con la madre o con teco più onestamente non visse, che ella appresso di mia madre ha fatto nella mia casa. » E questo detto, si rivolse alla donna e disse: « Madonna, omai da ogni promessa fatami io v'assolvo, e libera vi lascio di Niccoluccio »; e rimessa la donna e 'l fanciul nelle braccia di Niccoluccio, si tornò a sedere. Niccoluccio disiderosamente ricevette la sua donna e 'l figliuolo, tanto più lieto quanto più n'era di speranza lontano, e, come meglio potè e seppe, ringraziò il cavaliere; e gli altri che tutti di compassion lagrimavano, di questo il commendaron molto, e commendato fu da chiunque l'udì. La donna con maravigliosa festa fu in casa sua ricevuta, e quasi risuscitata con ammirazione fu più tempo guatata da' bolognesi; e messer Gentile sempre amico visse di Niccoluccio e de' suoi parenti e di quei della donna. Che adunque qui, benigne donne, direte? Estimerete l'aver donato un re lo scettro e la corona, e uno abate senza suo costo aver riconciliato un malfattore al papa, o un vecchio porgere la sua gola al coltello del nimico, essere stato da agguagliare al fatto di messer Gentile? Il quale giovane e ardente, e giusto titolo parendogli avere in ciò che la traccutaggine altrui aveva gittato via e egli per la sua buona fortuna aveva ricolto, non solo temperò onestamente il suo fuoco, ma liberalmente quello che egli soleva con tutto il pensier disiderare e cercar di rubare, avendolo, restituì. Per certo niuna delle già dette a questa mi par simigliante. -- NOVELLA QUINTA Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio; messer Ansaldo con l'obligarsi a uno nigromante gliele dà; il marito le concede che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l'assolve della promessa, e il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messere Ansaldo. Per ciascuno della lieta brigata era già stato messer Gentile con somme lode tolto infino al cielo, quando il re impose a Emilia che seguisse, la qual baldanzosamente, quasi di dire disiderosa, così cominciò: -- Morbide donne, niun con ragione dirà messer Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler dire che più non si possa, il più potersi non fia forse malagevole a mostrarsi; il che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi. In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d'un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria. E meritò questa donna per lo suo valore d'essere amata sommamente da un nobile e gran barone, il quale aveva nome messer Ansaldo Gradense, uomo d'alto affare, e per arme e per cortesia conosciuto per tutto. Il quale, ferventemente amandola e ogni cosa faccendo che per lui si poteva per essere amato da lei, e a ciò spesso per sue ambasciate sollicitandola, invano si faticava. E essendo alla donna gravi le sollicitazioni del cavaliere, e veggendo che, per negare ella ogni cosa da lui domandatole, esso per ciò d'amarla né di sollicitarla si rimaneva, con una nuova e al suo giudicio impossibil domanda si pensò di volerlosi torre da dosso. E a una femina che a lei da parte di lui spesse volte veniva, disse un dì così: « Buona femina, tu m'hai molte volte affermato che messer Ansaldo sopra tutte le cose m'ama e maravigliosi doni m'hai da sua parte proferti, li quali voglio che si rimangano a lui, per ciò che per quegli mai a amar lui né a compiacergli mi recherei; e se io potessi esser certa che egli cotanto m'amasse quanto tu di', senza fallo io mi recherei a amar lui e a far quello che egli volesse; e per ciò, dove di ciò mi volesse far fede con quello che io domanderò, io sarei a' suoi comandamenti presta. » Disse la buona femina: « Che è quello, madonna, che voi disiderate che el faccia? » Rispose la donna: « Quello che io disidero è questo. Io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti albori, non altrimenti fatto che se di maggio fosse; il quale dove egli non faccia, né te né altri mi mandi mai più; per ciò che, se più mi stimolasse, come io infino a qui del tutto al mio marito e a' miei parenti tenuto ho nascoso, così dolendomene loro, di levarlomi da dosso m'ingegnerei. » Il cavaliere, udita la domanda e la proferta della sua donna, quantunque grave cosa e quasi impossibile a dover fare gli paresse e conoscesse per niun'altra cosa ciò essere dalla donna addomandato, se non per torlo dalla sua speranza, pur seco propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse; e in più parti per lo mondo mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o consiglio gli desse; e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse, per arte nigromantica profereva di farlo. Col quale messer Ansaldo per grandissima quantità di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo postogli. Il qual venuto, essendo i freddi grandissimi e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, il valente uomo in un bellissimo prato vicino alla città con sue arti fece sì, la notte alla quale il calendi gennaio seguitava, che la mattina apparve, secondo che color che 'l vedevan testimoniavano, un de' più be'giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d'ogni maniera. Il quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe veduto, fatto cogliere de' più be'frutti e de più be'fior che v'erano, quegli occultamente fe'presentare alla sua donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addomandato, acciò che per quel potesse lui amarla conoscere, e ricordarsi della promission fattagli e con saramento fermata, e come leal donna poi procurar d'attenergliele. La donna, veduti i fiori e' frutti, e già da molti del maraviglioso giardino avendo udito dire, s'incominciò a pentere della sua promessa. Ma, con tutto il pentimento, sì come vaga di veder cose nuove, con molte altre donne della città andò il giardino a vedere, e non senza maraviglia commendatolo assai, più che altra femina dolente a casa se ne tornò, a quel pensando a che per quello era obbligata. E fu il dolore tale, che non potendol ben dentro nascondere, convenne che, di fuori apparendo, il marito di lei se n'accorgesse, e volle del tutto da lei di quello saper la cagione. La donna per vergogna il tacque molto; ultimamente, costretta, ordinatamente gli aperse ogni cosa. Gilberto primieramente ciò udendo si turbò forte: poi, considerata la pura ìntenzion della donna, con miglior consiglio, cacciata via l'ira. disse: « Dianora, egli non è atto di savia né d'onesta donna d'ascoltare alcuna ambasciata delle così fatte né di pattovire sotto alcuna condizione con alcuno la sua castità. Le parole per gli orecchi dal cuore ricevute hanno maggior forza che molti non stimano, e quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile. Male adunque facesti prima a ascoltare e poscia a pattovire; ma per ciò che io conosco la purità dello animo tuo, per solverti dal legame della promessa, quello ti concederò che forse alcuno altro non farebbe; inducendomi ancora la paura del nigromante, al qual forse messer Ansaldo, se tu il beffassi, far ci farebbe dolenti. Voglio io che tu a lui vada, e, se per modo alcun puoi, t'ingegni di far che, servata la tua onestà, tu sii da questa promessa disciolta; dove altramenti non si potesse, per questa volta il corpo ma non l'animo gli concedi. » La donna, udendo il marito, piagneva e negava sé cotal grazia voler da lui. A Gilberto, quantunque la donna il negasse molto, piacque che così fosse. Per che, venuta la seguente mattina, in su l'aurora, senza troppo ornarsi, con due suoi famigliari innanzi e con una cameriera appresso, n'andò la donna a casa messere Ansaldo. Il quale, udendo la sua donna a lui esser venuta, si maravigliò forte, e levatosi e fatto il nigromante chiamare, gli disse: « Io voglio che tu vegghi quanto di bene la tua arte m'ha fatto acquistare. » E incontro andatile, senza alcun disordinato appetito seguire, con reverenza onestamente la ricevette, e in una bella camera a un gran fuoco se n'entrar tutti; e fatto lei porre a seder, disse: « Madonna, io vi priego, se il lungo amore il quale io v'ho portato merita alcun guiderdone, che non vi sia noia d'aprirmi la vera cagione che qui a così fatta ora v'ha fatta venire e con cotal compagnia. » La donna, vergognosa e quasi con le lagrime sopra gli occhi, rispose: « Messere, né amor che io vi porti né promessa fede mi menan qui, ma il comandamento del mio marito; il quale, avuto più rispetto alle fatiche del vostro disordinato amore che al suo e mio onore, mi ci ha fatta venire; e per comandamento di lui disposta sono per questa volta a ogni vostro piacere. » Messer Ansaldo, se prima si maravigliava, udendo la donna molto più s'incominciò a maravigliare; e dalla liberalità di Gilberto commosso, il suo fervore in compassione cominciò a cambiare, e disse: « Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore dello onore di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l'esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altramenti che se mia sorella foste, e, quando a grado vi sarà, liberamente vi potrete partire, sì veramente che voi al vostro marito di tanta cortesia, quanta la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servidore. » La donna, queste parole udendo, più lieta che mai, disse: « Niuna cosa mi potè mai far credere, avendo riguardo a' vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate, di che io vi sarò sempre obbligata »; e preso commiato, onorevolmente accompagnata si tornò a Gilberto e raccontogli ciò che avvenuto era; di che strettissima e leale amistà lui e messer Ansaldo congiunse. Il nigromante, al quale messer Ansaldo di dare il promesso premio s'apparecchiava, veduta la liberalità di Gilberto verso messer Ansaldo e quella di messer Ansaldo verso la donna, disse: « Già Dio non voglia, poi che io ho veduto Gilberto liberale del suo onore e voi del vostro amore, che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò, conoscendo quello a voi star bene, intendo che vostro sia. » Il cavaliere si vergognò e ingegnossi a suo potere di fargli o tutto o parte prendere; ma poi che in vano si faticava, avendo il nigromante dopo il terzo dì tolto via il suo giardino, e piacendogli di partirsi, il comandò a Dio; e spento del cuore il concupiscibile amore verso la donna, acceso d'onesta carità si rimase. Che direm qui, amorevoli donne? Preporremo la quasi morta donna e il già rattiepidito amore per la spossata speranza, a questa liberalità di messer Ansaldo, più ferventemente che mai amando ancora e quasi da più speranza acceso e nelle sue mani tenente la preda tanto seguita? Sciocca cosa mi parrebbe a dover creder che quella liberalità a questa comparar si potesse. -- NOVELLA SESTA Il re Carlo vecchio, vittorioso, d'una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita. Chi potrebbe pienamente raccontare i vari ragionamenti tra le donne stati, qual maggior liberalità usasse o Gilberto o messer Ansaldo o il nigromante, intorno a' fatti di madonna Dianora? troppo sarebbe lungo. Ma poi che il re alquanto disputare ebbe conceduto, alla Fiammetta guardando, comandò che novellando traesse lor di quistione; la quale, niuno indugio preso, incominciò: -- Splendide donne, io fui sempre in oppinione che nelle brigate, come la nostra è, si dovesse sì largamente ragionare che la troppa strettezza della intenzion delle cose dette non fosse altrui materia di disputare. Il che molto più si conviene nelle scuole tra gli studianti che tra noi, le quali appena alla rocca e al fuso bastiamo. E per ciò io, che in animo alcuna cosa dubbiosa forse avea, veggendovi per le già dette alla mischia, quella lascerò stare, e una ne dirò, non mica d'uomo di poco affare, ma d'un valoroso re, quello che egli cavallerescamente operasse, in nulla mancando il suo onore. Ciascuna di voi molte volte può avere udito ricordare il re Carlo vecchio, ovver primo, per la cui magnifica impresa e poi per la gloriosa vittoria avuta del re Manfredi furon di Firenze i ghibellin cacciati e ritornaronvi i guelfi. Per la qual cosa un cavalier, chiamato messer Neri degli Uberti, con tutta la sua famiglia e con molti denari uscendone, non si volle altrove che sotto le braccia del re Carlo riducere; e per essere in solitario luogo e quivi finire in riposo la vita sua, a Castello a mare di Stabia se n'andò; e ivi forse una balestrata rimosso dall'altre abitazioni della terra, tra ulivi e nocciuoli e castagni, de' quali la contrada è abondevole, comperò una possessione, sopra la quale un bel casamento e agiato fece, e allato a quello un dilettevole giardino, nel mezzo del quale, a nostro modo, avendo d'acqua viva copia, fece un bel vivaio e chiaro, e quello di molto pesce riempiè leggiermente. E a niun'altra cosa attendendo che a fare ogni dì più bello il suo giardino, avvenne che il re Carlo, nel tempo caldo, per riposarsi alquanto, a Castello a mar se n'andò; dove udita la bellezza del giardino di messer Neri, disiderò di vederlo. E avendo udito di cui era, pensò che, per ciò che di parte avversa alla sua era il cavaliere, più familiarmente con lui si volesse fare, e mandogli a dire che con quattro compagni chetamente la seguente sera con lui voleva cenare nel suo giardino. Il che a messer Neri fu molto caro, e magnificamente avendo apparecchiato e con la sua famiglia avendo ordinato ciò che far si dovesse, come più lietamente potè e seppe, il re nel suo bel giardino ricevette. Il qual, poi che il giardin tutto e la casa di messer Neri ebbe veduta e commendata, essendo le tavole messe allato al vivaio, a una di quelle, lavato, si mise a sedere, e al conte Guido di Monforte, che l'un de' compagni era, comandò che dall'un de' lati di lui sedesse, e messer Neri dall'altro, e a altri tre, che con lui eran venuti, comandò che servissero secondo l'ordine posto da messer Neri. Le vivande vi vennero dilicate, e i vini vi furono ottimi e preziosi, e l'ordine bello e laudevole molto senza alcun sentore e senza noia; il che il re commendò molto. E mangiando egli lietamente, e del luogo solitario giovandogli, e nel giardino entrarono due giovinette d'età forse di quattordici anni l'una, bionde come fila d'oro, e co' capelli tutti inanellati e sopr'essi sciolti una leggiera ghirlandetta di provinca, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; e eran vestite d'un vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura in su era strettissimo e da indi giù largo a guisa d'un padiglione e lungo infino a' piedi. E quella che dinanzi veniva recava in su le spalle un paio di vangaiole, le quali con la sinistra man tenea, e nella destra aveva un baston lungo. L'altra che veniva appresso aveva sopra la spalla sinistra una padella, e sotto quel braccio medesimo un fascetto di legne, e nella mano un treppiede, e nell'altra mano uno utel d'olio e una facellina accesa. Le quali il re vedendo si maravigliò, e sospeso attese quello che questo volesse dire. Le giovinette, venute innanzi onestamente e vergognose, fecero la reverenzia al re; e appresso là andatesene onde nel vivaio s'entrava, quella che la padella aveva, postala giù e l'altre cose appresso, prese il baston che l'altra portava e amendune nel vivaio, l'acqua del quale loro infino al petto aggiugnea, se n'entrarono. Uno de' famigliari di messer Neri prestamente quivi accese il fuoco, e posta la padella sopra il treppiè e dell'olio messovi, cominciò a aspettare che le giovani gli gittasser del pesce. Delle quali, l'una frugando in quelle parti dove sapeva che i pesci si nascondevano e l'altra le vangaiole parando, con grandissimo piacere del re, che ciò attentamente guardava, in piccolo spazio di tempo presero pesce assai; e al famigliar gittatine che quasi vivi nella padella gli metteva, sì come ammaestrate erano state, cominciarono a prendere de' più belli e a gittare su per la tavola davanti al re e al conte Guido e al padre. Questi pesci su per la mensa guizzavano, di che il re aveva maraviglioso piacere, e similmente egli prendendo di questi, alle giovani cortesemente gli gittava indietro; e così per alquanto spazio cianciarono, tanto che il famigliare quello ebbe cotto che dato gli era stato, il qual più per uno intramettere, che per molto cara o dilettevol vivanda, avendol messer Neri ordinato, fu messo davanti al re. Le fanciulle, veggendo il pesce cotto e avendo assai pescato, essendosi tutto il bianco vestimento e sottile loro appiccato alle carni, né quasi cosa alcuna del dilicato lor corpo celando, usciron del vivaio, e ciascuna le cose recate avendo riprese, davanti al re vergognosamente passando, in casa se ne tornarono. Il re e 'l conte e gli altri che servivano, avevano molto queste giovinette considerate, e molto in sé medesimo l'avea lodate ciascuno per belle e per ben fatte, e oltre a ciò per piacevoli e per costumate, ma sopra a ogn'altro erano al re piaciute. Il quale sì attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata, uscendo esse dell'acqua, che chi allora l'avesse punto non si sarebbe sentito. E più a loro ripensando, senza sapere chi si fossero né come, si sentì nel cuor destare un ferventissimo disidero di piacer loro, per lo quale assai ben conobbe sé divenire innamorato, se guardia non se ne prendesse, né sapeva egli stesso qual di lor due si fosse quella che più gli piacesse, sì era di tutte cose l'una simiglievole all'altra. Ma poi che alquanto fu sopra questo pensier dimorato, rivolto a messer Neri, il domandò chi fossero le due damigelle; a cui messer Neri rispose: « Monsignore, queste son mie figliuole a un medesimo parto nate, delle quali l'una ha nome Ginevra la bella e l'altra Isotta la bionda. » A cui il re le commendò molto, confortandolo a maritarle. Dal che messer Neri, per più non poter, si scusò. E in questo, niuna cosa fuor che le frutte restando a dar nella cena, vennero le due giovinette in due giubbe di zendado bellissime con due grandissimi piattelli d'argento in mano pieni di vari frutti, secondo che la stagion portava, e quegli davanti al re posarono sopra la tavola. E questo fatto, alquanto indietro tiratesi, cominciarono a cantare un suono, le cui parole cominciano:
con tanta dolcezza e sì piacevolmente, che al re, che con diletto le riguardava e ascoltava, pareva che tutte le gerarchie degli angeli quivi fossero discese a cantare. E quel detto, inginocchiatesi, reverentemente commiato domandarono al re, il quale, ancora che la lor partita gli gravasse, pure in vista lietamente il diede. Finita adunque la cena e il re co' suoi compagni rimontati a cavallo e messer Neri lasciato, ragionando d'una cosa e d'altra, al reale ostiere se ne tornarono. Quivi, tenendo il re la sua affezion nascosa, né per grande affare che sopravvenisse potendo dimenticar la bellezza e la piacevolezza di Ginevra la bella, per amor di cui la sorella a lei simigliante ancor amava, sì nell'amorose panie s'invescò, che quasi a altro pensar non poteva: e altre cagioni dimostrando, con messer Neri teneva una stretta dimestichezza e assai sovente il suo bel giardin visitava per veder la Ginevra. E già più avanti sofferir non potendo, e essendogli non sappiendo altro modo vedere, nel pensier caduto di dover, non solamente l'una, ma amendune le giovinette al padre torre, e il suo amore e la sua intenzione fe'manifesta al conte Guido. Il quale, per ciò che valente uomo era, gli disse: « Monsignore, io ho gran maraviglia di ciò che voi mi dite, e tanto ne l'ho maggiore che un altro non avrebbe, quanto mi par meglio dalla vostra fanciullezza infino a questo dì avere i vostri costumi conosciuti, che alcun altro. E non essendomi paruto giammai nella vostra giovanezza, nella quale amor più leggiermente doveva i suoi artigli ficcare, aver tal passion conosciuta, sentendovi ora che già siete alla vecchiezza vicino, m'è sì nuovo e sì strano che voi per amore amiate, che quasi un miracol mi pare; e se a me di ciò cadesse il riprendervi, io so bene ciò che io ve ne direi, avendo riguardo che voi ancora siete con l'arme in dosso nel regno nuovamente acquistato, tra nazion non conosciuta e piena d'inganni e di tradimenti, e tutto occupato di grandissime sollicitudini e d'alto affare, né ancora vi siete potuto porre a sedere, e intra tante cose abbiate fatto luogo al lusinghevole amore. Questo non è atto di re magnanimo, anzi d'un pusillanimo giovinetto. E oltre a questo, che è molto peggio, dite che diliberato avete di dovere le due figliuole torre al povero cavaliere, il quale, in casa sua, oltre al poter suo v'ha onorato, e, per più onorarvi, quelle quasi ignude v'ha dimostrate, testificando per quello quanta sia la fede che egli ha in voi, e che esso fermamente creda voi essere re e non lupo rapace. Ora èvvi così tosto della memoria caduto le violenze fatte alle donne da Manfredi avervi l'entrata aperta in questo regno? Qual tradimento si commise giammai più degno d'etterno supplicio, che saria questo, che voi a colui che v'onora togliate il suo onore e la sua speranza e la sua consolazione? Che si direbbe di voi, se voi il faceste? Voi forse estimate che sufficiente scusa fosse il dire: « Io il feci per ciò che egli è ghibellino. » Ora è questo della giustizia dei re, che coloro che nelle lor braccia ricorrono in cotal forma, chi che essi si sieno, in così fatta guisa si trattino? Io vi ricordo, re, che grandissima gloria v'è aver vinto Manfredi e sconfitto Corradino, ma molto maggiore è sé medesimo vincere; e per ciò voi, che avete gli altri a correggere, vincete voi medesimo e questo appetito raffrenate, né vogliate con così fatta macchia ciò che gloriosamente acquistato avete guastare. » Queste parole amaramente punsero l'animo del re, e tanto più l'afflissero quanto più vere le conoscea; per che, dopo alcun caldo sospiro, disse: « Conte, per certo ogn'altro nimico, quantunque forte estimo che sia al bene ammaestrato guerriere assai debole e agevole a vincere a rispetto del suo medesimo appetito; ma, quantunque l'affanno sia grande e la forza bisogni inestimabile, sì m'hanno le vostre parole spronato, che conviene, avanti che troppi giorni trapassino, che io vi faccia per opera vedere che, come io so altrui vincere, così similmente so a me medesimo soprastare. » Né molti giorni appresso a queste parole passarono, che tornato il re a Napoli, sì per torre a sé stesso materia d'operar vilmente alcuna cosa e sì per premiare il cavaliere dello onore ricevuto da lui, quantunque duro gli fosse il fare altrui possessor di quello che egli sommamente per sé disiderava, nondimen si dispose di voler maritare le due giovani, e non come figliuole di messer Neri, ma come sue. E con piacer di messer Neri, senza niuno indugio magnificamente dotatele, Ginevra la bella diede a messer Maffeo da Palizzi, e Isotta la bionda a messer Guiglielmo della Magna, nobili cavalieri e gran baron ciascuno; e loro assegnatele, con dolore inestimabile in Puglia se n'andò, e con fatiche continue tanto e sì macerò il suo fiero appetito, che spezzate e rotte l'amorose catene, per quanto viver dovea libero rimase da tal passione. Saranno forse di quei che diranno piccola cosa essere a un re l'aver maritate due giovinette; e io il consentirò; ma molto grande e grandissima la dirò, se diremo un re innamorato questo abbia fatto, colei maritando cui egli amava, senza aver preso a pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto. Così adunque il magnifico re operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l'amate giovinette laudevolmente onorando, e sé medesimo fortemente vincendo. -- NOVELLA SETTIMA Il re Piero, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, lei conforta e appresso a un gentil giovane la marita; e lei nella fronte basciata, sempre poi si dice suo cavaliere. Venuta era la Fiammetta al fin della sua novella, e commendata era stata molto la virile magnificenzia del re Carlo, quantunque alcuna, che quivi era ghibellina, commendar nol volesse; quando Pampinea, avendogliele il re imposto, incominciò: -- Niun discreto, ragguardevoli donne, sarebbe, che non dicesse ciò che voi dite del buon re Carlo, se non costei che gli vuol mal per altro; ma, per ciò che a me va per la memoria una cosa non meno commendevole forse che questa, fatta da un suo avversario ancora in una nostra giovane fiorentina, quella mi piace di raccontarvi. Nel tempo che i franceschi di Cicilia furon cacciati, era in Palermo un nostro fiorentino speziale, chiamato Bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale d'una sua donna senza più aveva una figliuola bellissima e già da marito. E essendo il re Pietro di Raona signor della isola divenuto, faceva in Palermo maravigliosa festa co' suoi baroni. Nel la qual festa armeggiando egli alla catalana, avvenne che la figliuola di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove ella era con altre donne, il vide correndo egli, e sì maravigliosamente le piacque, che, una volta e altra poi riguardandolo, di lui ferventemente s'innamorò. E cessata la festa, e ella in casa del padre standosi, a niun'altra cosa poteva pensare se non a questo suo magnifico e alto amore. E quello che intorno a ciò più l'offendeva, era il cognoscimento della sua infima condizione, il quale niuna speranza appena le lasciava pigliare di lieto fine; ma non per tanto da amare il re indietro si voleva tirare, e per paura di maggior noia a manifestar non l'ardiva. Il re di questa cosa non s'era accorto né si curava; di che ella, oltre a quello che si potesse estimare, portava intollerabil dolore. Per la qual cosa avvenne che, crescendo in lei amor continuamente e una malinconia sopr'altra aggiugnendosi, la bella giovane più non potendo infermò, e evidentemente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumava. Il padre di lei e la madre, dolorosi di questo accidente, con conforti continui e con medici e con medicine in ciò che si poteva l'atavano; ma niente era, per ciò che ella, sì come del suo amore disperata, aveva eletto di più non volere vivere. Ora avvenne che, offerendole il padre di lei ogni suo piacere, le venne in pensiero, se acconciamente potesse, di volere il suo amore e il suo proponimento, prima che morisse, fare al re sentire; e per ciò un dì il pregò che egli le facesse venire Minuccio d'Arezzo. Era in que' tempi Minuccio tenuto un finissimo cantatore e sonatore, e volentieri dal re Pietro veduto, il quale Bernardo avvisò che la Lisa volesse per udirlo alquanto e sonare e cantare; per che, fattogliele dire, egli, che piacevole uomo era, incontanente a lei venne; e poi che alquanto con amorevoli parole confortata l'ebbe, con una sua vivuola dolcemente sonò alcuna stampita e cantò appresso alcuna canzone; le quali allo amor della giovane erano fuoco e fiamma, là dove egli la credea consolare. Appresso questo disse la giovane che a lui solo alquante parole voleva dire; per che, partitosi ciascun altro ella gli disse: « Minuccio, io ho eletto te per fidissimo guardatore d'un mio segreto, sperando primieramente che tu quello a niuna persona, se non a colui che io ti dirò, debbi manifestar giammai; e appresso, che in quello che per te si possa tu mi debbi aiutare: così ti priego. Dei adunque sapere, Minuccio mio, che il giorno che il nostro signor re Pietro fece la gran festa della sua esaltazione, mel venne, armeggiando egli, in sì forte punto veduto, che dello amor di lui mi s'accese un fuoco nell'anima, che al partito m'ha recata che tu mi vedi; e conoscendo io quanto male il mio amore a un re si convenga, e non potendolo non che cacciare ma diminuire, e egli essendomi oltre modo grave a comportare, ho per minor doglia eletto di voler morire, e così farò. È il vero che io fieramente n'andrei sconsolata, se prima egli nol sapesse; e non sappiendo per cui potergli questa mia disposizion fargli sentire più acconciamente che per te, a te commettere la voglio, e priegoti che non rifiuti di farlo, e quando fatto l'avrai assapere mel facci, acciò che io, consolata morendo, mi sviluppi da queste pene »; e questo detto piagnendo, si tacque. Maravigliossi Minuccio dell'altezza dello animo di costei e del suo fiero proponimento, e increbbenegli forte, e subitamente nello animo corsogli come onestamente la poteva servire, le disse: « Lisa, io t'obbligo la mia fede, della quale vivi sicura che mai ingannata non ti troverrai, e appresso commendandoti di sì alta impresa, come è aver l'animo posto a così gran re, t'offero il mio aiuto, col quale io spero, dove tu confortar ti vogli, sì adoperare, che, avanti che passi il terzo giorno ti credo recar novelle che sommamente ti saran care; e per non perder tempo, voglio andare a cominciare. » La Lisa, di ciò da capo pregatol molto e promessogli di confortarsi, disse che s'andasse con Dio. Minuccio partitosi, ritrovò un Mico da Siena assai buon dicitore in rima a quei tempi, e con prieghi lo strinse a far la canzonetta che segue:
Le quali parole Minuccio prestamente intonò d'un suono soave e pietoso, sì come la materia di quelle richiedeva, e il terzo dì se n'andò a corte, essendo ancora il re Pietro a mangiare, dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa cantasse con la sua viuola. Laonde egli cominciò sì dolcemente sonando a cantar questo suono, che quanti nella real sala n'erano parevano uomini adombrati, sì tutti stavano taciti e sospesi a ascoltare, e il re per poco più che gli altri. E avendo Minuccio il suo canto fornito, il re il domandò donde questo venisse che mai più non gliele pareva avere udito. « Monsignore, » rispose Minuccio « e'non sono ancora tre giorni che le parole si fecero e 'l suono. » Il quale, avendo il re domandato per cui, rispose: « Io non l'oso scovrir se non a voi. » Il re, disideroso d'udirlo, levate le tavole, nella camera sel fe'venire, dove Minuccio ordinatamente ogni cosa udita gli raccontò. Di che il re fece gran festa, e commendò la giovane assai, e disse che di sì valorosa giovane si voleva aver compassione; e per ciò andasse da sua parte a lei e la confortasse, e le dicesse che senza fallo quel giorno in sul vespro la verrebbe a visitare. Minuccio, lietissimo di portare così piacevole novella, alla giovane senza ristare con la sua viuola n'andò, e con lei sola parlando, ogni cosa stata raccontò, e poi la canzone cantò con la sua viuola. Di questo fu la giovane tanto lieta e tanto contenta, che evidentemente senza alcuno indugio apparver segni grandissimi della sua sanità; e con disidero, senza sapere o presummere alcun della casa che ciò si fosse, cominciò a aspettare il vespro, nel quale il suo signor veder dovea. Il re, il quale liberale e benigno signore era, avendo poi più volte pensato alle cose udite da Minuccio e conoscendo ottimamente la giovane e la sua bellezza, divenne ancora più che non era di lei pietoso; e in sull'ora del vespro montato a cavallo, sembiante faccendo d'andare a suo diporto, pervenne là dov'era la casa dello speziale; e quivi fatto domandare che aperto gli fosse un bellissimo giardino il quale lo speziale avea, in quello smontò, e dopo alquanto domandò Bernardo che fosse della figliuola, se egli ancora maritata l'avesse. Rispose Bernardo: « Monsignore, ella non è maritata, anzi è stata e ancora è forte malata; è il vero che da nona in qua ella è maravigliosamente migliorata. » Il re intese prestamente quello che questo miglioramento voleva dire, e disse: « In buona fè danno sarebbe che ancora fosse tolta al mondo sì bella cosa; noi la vogliamo venire a visitare. » E con due compagni solamente e con Bernardo nella camera di lei poco appresso se n'andò, e come là entro fu, s'accostò al letto dove la giovane alquanto sollevata con disio l'aspettava, e lei per la man prese dicendo: « Madonna, che vuol dir questo? Voi siete giovane e dovreste l'altre confortare, e voi vi lasciate aver male: noi vi vogliam pregare che vi piaccia, per amor di noi, di confortarvi in maniera che voi siate tosto guerita. » La giovane, sentendosi toccare alle mani di colui il quale ella sopra tutte le cose amava, come che ella alquanto si vergognasse, pur sentiva tanto piacer nell'animo, quanto se stata fosse in paradiso; e, come potè, gli rispose: « Signor mio, il volere io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi, m'è di questa infermità stata cagione, dal la quale voi, vostra buona mercé, tosto libera mi vedrete. » Solo il re intendeva il coperto parlare della giovane, e da più ogn'ora la reputava, e più volte seco stesso maladisse la fortuna, che di tale uomo l'aveva fatta figliuola; e poi che alquanto fu con lei dimorato e più ancora confortatala, si partì. Questa umanità del re fu commendata assai, e in grande onor fu attribuita allo speziale e alla figliuola; la quale tanto contenta rimase, quanto altra donna di suo amante fosse giammai; e da migliore speranza aiutata, in pochi giorni guerita, più bella diventò che mai fosse. Ma poi che guerita fu, avendo il re con la reina diliberato qual merito di tanto amore le volesse rendere, montato un dì a cavallo con molti de' suoi baroni a casa dello spezial se n'andò, e nel giardino entratosene, fece lo spezial chiamare e la sua figliuola; e in questo venuta la reina con molte donne, e la giovane tra lor ricevuta, cominciarono maravigliosa festa. E dopo alquanto il re insieme con la reina chiamata la Lisa, le disse il re: « Valorosa giovane, il grande amor che portato n'avete v'ha grande onore da noi impetrato, del quale noi vogliamo che per amor di noi siate contenta; e l'onore è questo, che, con ciò sia cosa che voi da marito siate, noi vogliamo che colui prendiate per marito che noi vi daremo, intendendo sempre, non ostante questo, vostro cavaliere appellarci, senza più di tanto amor voler da voi che un sol bascio. » La giovane, che di vergogna tutta era nel viso divenuta vermiglia, faccendo suo il piacer del re, con bassa voce così rispose: « Signor mio, io son molto certa che, se egli si sapesse che io di voi innamorata mi fossi, la più della gente me ne reputerebbe matta, credendo forse che io a me medesima fossi uscita di mente e che io la mia condizione e oltre a questo la vostra non conoscessi; ma come Idio sa, che solo i cuori de' mortali vede, io nell'ora che voi prima mi piaceste, conobbi voi essere re e me figliuola di Bernardo speziale, e male a me convenirsi in sì alto luogo l'ardore dello animo dirizzare. Ma, sì come voi molto meglio di me conoscete, niuno secondo debita elezione ci s'innamora, ma secondo l'appetito e il piacere; alla qual legge più volte s'opposero le forze mie, e più non potendo, v'amai e amo e amerò sempre. E' il vero che, com'io a amore di voi mi sentii prendere, così mi disposi di far sempre, del vostro, voler mio, e per ciò, non che io faccia questo di prender volentier marito e d'aver caro quello il quale vi piacerà di donarmi, che mio onore e stato sarà, ma se voi diceste che io dimorassi nel fuoco, credendovi io piacere mi sarebbe diletto. Avere uno re per cavaliere, sapete quanto mi si conviene, e per ciò più a ciò non rispondo; né il bacio che solo del mio amor volete, senza licenzia di madama la reina vi sarà per me conceduto. Nondimeno di tanta benignità verso me, quanta è la vostra e quella di madama la reina che è qui, Idio per me vi renda e grazie e merito; ché io da render non l'ho »; e qui si tacque. Alla reina piacque molto la risposta della giovane, e parvele così savia come il re l'aveva detto. Il re fece chiamare il padre della giovane e la madre, e sentendogli contenti di ciò che fare intendeva, si fece chiamare un giovane, il quale era gentile uomo ma povero, ch'avea nome Perdicone, e postegli certe anella in mano, a lui, non recusante di farlo, fece sposare la Lisa. A' quali incontanente il re, oltre a molte gioie e care che egli e la reina alla giovane donarono, gli donò Ceffalù e Calatabellotta, due bonissime terre e di gran frutto, dicendo: « Queste ti doniamo noi per dote della donna; quello che noi vorremo fare a te, tu tel vedrai nel tempo avvenire. »; e questo detto, rivolto alla giovane, disse: « Ora vogliam noi prender quel frutto che noi del vostro amor aver dobbiamo »; e presole con amenduni le mani il capo le basciò la fronte. Perdicone e 'l padre e la madre della Lisa e ella altressì contenti, grandissima festa fecero e liete nozze; e secondo che molti affermano, il re molto bene servò alla giovane il convenente; per ciò che mentre visse sempre s'appellò suo cavaliere, né mai in alcun fatto d'arme andò, che egli altra sopransegna portasse che quella che dalla giovane mandata gli fosse. Così adunque operando si pigliano gli animi dei suggetti; dassi altrui materia di bene operare, e le fame etterne s'acquistano. Alla qual cosa oggi pochi o niuno ha l'arco teso dello 'ntelletto, essendo li più de' signori divenuti crudeli tiranni. -- NOVELLA OTTAVO Sofronia, credendosi esser moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo e con lui se ne va a Roma, dove Gisippo in povero stato arriva; e credendo da Tito esser disprezzato sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma; Tito, riconosciutolo, per iscamparlo, dice sé averlo morto; il che colui che fatto l'avea vedendo sé stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati, e Tito dà a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo bene. Filomena, per comandamento del re, essendo Pampinea di parlar ristata, e già avendo ciascuna commendato il re Pietro, e più la ghibellina che l'altre, incominciò: -- Magnifiche donne, chi non sa li re poter, quando vogliono, ogni gran cosa fare, e loro altressì spezialissimamente richiedersi l'esser magnifichi? Chi adunque, possedendo, fa quello che a lui s'appartiene, fa bene; ma non se ne dee l'uomo tanto maravigliare, né alto con somme lode levarlo, come un altro si converria che il facesse, a cui per poca possa meno si richiedesse. E per ciò, se voi con tante parole l'opere de' re essaltate e paionvi belle, io non dubito punto che molto più non vi debbian piacere e esser da voi commendate quelle de' nostri pari, quando sono a quelle de' re simiglianti o maggiori; per che una laudevole opera e magnifica usata tra due cittadini amici ho proposto in una novella di raccontarvi. Nel tempo adunque che Ottavian Cesare, non ancora s chiamato Augusto, ma nello uficio chiamato triumvirato lo 'mperio di Roma reggeva, fu in Roma un gentile uomo chiamato Publio Quinzio Fulvo, il quale, avendo un suo figliuolo, Tito Quinzio Fulvo nominato, di maraviglioso ingegno, a imprender filosofia il mandò a Atene, e quantunque più potè il raccomandò a un nobile uomo della terra chiamato Cremete, il quale era antichissimo suo amico. Dal quale Tito nelle propie case di lui fu allogato in compagnia d'un suo figliuolo nominato Gisippo; e sotto la dottrina d'un filosofo chiamato Aristippo, e Tito e Gisippo furon parimente da Cremete posti a imprendere. E venendo i due giovani usando insieme, tanto si trovarono i costumi loro esser conformi, che una fratellanza e una amicizia sì grande ne nacque tra loro, che mai poi da altro caso che da morte non fu separata. Niun di loro aveva né ben né riposo, se non tanto quanto erano insieme. Essi avevano cominciati gli studi, e parimente ciascuno d'altissimo ingegno dotato saliva alla gloriosa altezza della filosofia con pari passo e con maravigliosa laude; e in cotal vita con grandissimo piacer di Cremete, che quasi l'un più che l'altro non avea per figliuolo, perseveraron ben tre anni. Nella fine de' quali, sì come di tutte le cose addiviene, addivenne che Cremete, già vecchio, di questa vita passò; di che essi pari compassione, sì come di comun padre, portarono, né si discernea per gli amici né per li parenti di Cremete, qual più fosse per lo sopravvenuto caso da racconsolar di lor due. Avvenne, dopo alquanti mesi, che gli amici di Gisippo e i parenti furon con lui, e insieme con Tito il confortarono a tor moglie, e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e di nobilissimi parenti discesa, e cittadina d'Atene, il cui nome era Sofronia, d'età forse di quindici anni. E appressandosi il termine delle future nozze, Gisippo pregò un dì Tito che con lui andasse a vederla, ché veduta ancora non l'avea; e nella casa di lei venuti, e essa sedendo in mezzo d'amenduni, Tito, quasi consideratore della bellezza della sposa del suo amico, la cominciò attentissimamente a riguardare, e ogni parte di lei smisuratamente piacendogli mentre quelle seco sommamente lodava, sì fortemente, senza alcun sembiante mostrarne, di lei s'accese, quanto di donna alcuno amante s'accendesse giammai. Ma poi che alquanto con lei stati furono, partitisi, a casa se ne tornarono. Quivi Tito, solo nella sua camera entratosene, alla piaciuta giovane cominciò a pensare, tanto più accendendosi quanto più nel pensiero si stendea. Di che accorgendosi, dopo molti caldi sospiri, seco cominciò a dire: « Ahi! misera la vita tua, Tito! Dove e in che pon tu l'animo e l'amore e la speranza tua? Or non conosci tu, sì per li ricevuti onori da Cremete e dalla sua famiglia, e sì per la intera amicizia la quale è tra te e Gisippo, di cui costei è sposa, questa giovane convenirsi avere in quella reverenza che sorella? Che dunque ami? Dove ti lasci trasportare allo 'ngannevole amore? Dove alla lusinghevole speranza? Apri gli occhi dello 'ntelletto, e te medesimo, o misero, riconosci; dà luogo alla ragione, raffrena il concupiscibile appetito, tempera i disideri non sani, e a altro dirizza i tuoi pensieri; contrasta in questo cominciamento alla tua libidine, e vinci te medesimo, mentre che tu hai tempo. Questo non si conviene che tu vuogli, questo non è onesto; questo a che tu seguir ti disponi, eziandio essendo certo di giugnerlo (che non se'), tu il dovresti fuggire, se quello riguardassi che la vera amistà richiede e che tu dei. Che dunque farai, Tito? Lascerai il non convenevole amore, se quello vorrai fare che si conviene. » E poi, di Sofronia ricordandosi, in contrario volgendo, ogni cosa detta dannava, dicendo: « Le leggi d'Amore sono di maggior potenzia che alcune altre: elle rompono, non che quelle della amistà, ma le divine. Quante volte ha già il padre la figliuola amata? il fratello la sorella? la matrigna il figliastro? Cose più mostruose che l'uno amico amar la moglie dell'altro, già fattosi mille volte. Oltre a questo io son giovane, e la giovanezza è tutta sottoposta all'amorose forze. Quello adunque che a Amor piace a me convien che piaccia. L'oneste cose s'appartengono a' più maturi; io non posso volere se non quello che Amor vuole. La bellezza di costei merita d'essere amata da ciascheduno; e se io l'amo, che giovane sono, chi me ne potrà meritamente riprendere? Io non l'amo perché ella sia di Gisippo, anzi l'amo che l'amerei di chiunque ella stata fosse. Qui pecca la Fortuna che a Gisippo mio amico l'ha conceduta più tosto che a un altro; e se ella dee essere amata, che dee, e meritamente, per la sua bellezza, più dee esser contento Gisippo, risappiendolo, che io l'ami io che un altro. » E da questo ragionamento, faccendo beffe di sé medesimo, tornando in sul contrario, e di questo in quello, e di quello in questo, non solamente quel giorno e la notte seguente consumò, ma più altri, intanto che, il cibo e 'l sonno perdutone, per debolezza fu costretto a giacere. Gisippo, il qual più dì l'avea veduto di pensier pieno e ora il vedeva infermo, se ne doleva forte, e con ogni arte e sollecitudine, mai da lui non partendosi, s'ingegnava di confortarlo, spesso e con instanzia domandandolo della cagione de' suoi pensieri e della infermità. Ma, avendogli più volte Tito dato favole per risposta, e Gisippo avendole conosciute, sentendosi pur Tito constrignere, con pianti e con sospiri gli rispose in cotal guisa: « Gisippo, se agli Dii fosse piaciuto, a me era assai più a grado la morte che il più vivere, pensando che la fortuna m'abbi condotto in parte che della mia virtù mi sia convenuto far pruova, e quella con grandissima vergogna di me truovi vinta; ma certo io n'aspetto tosto quel merito che mi si conviene, cioè la morte, la qual mi fia più cara che il vivere con rimembranza della mia viltà, la quale per ciò che a te né posso né debbo alcuna cosa celare, non senza gran rossor ti scoprirrò. » E cominciatosi da capo, la cagion de' suoi pensieri, e la battaglia di quegli, e ultimamente de' quali fosse la vittoria, e sé per l'amor di Sofronia perire gli discoperse, affermando che, conoscendo egli quanto questo gli si sconvenisse, per penitenzia n'avea preso il voler morire, di che tosto credeva venire a capo. Gisippo, udendo questo e il suo pianto vedendo, alquanto prima sopra sé stette, sì come quegli che del piacere della bella giovane, avvegna che più temperatamente, era preso; ma senza indugio diliberò la vita dello amico più che Sofronia dovergli esser cara; e così, dalle lagrime di lui a lagrimare invitato, gli rispose piagnendo: « Tito, se tu non fossi di conforto bisognoso come tu se', io di te a te medesimo mi dorrei, sì come d'uomo il qualehai la nostra amicizia violata, tenendomi sì lungamente la tua gravissima passione nascosa; e come che onesto non ti paresse, non son per ciò le disoneste cose, se non come l'oneste, da celare all'amico, per ciò che chi amico è, come delle oneste con l'amico prende piacere, così le non oneste s'ingegna di torre dello animo dello amico; ma ristarommene al presente, e a quel verrò che di maggior bisogno esser conosco. Se tu ardentemente ami Sofronia a me sposata, io non me ne maraviglio, ma maravigliere'mi io ben se così non fosse, conoscendo la sua bellezza e la nobiltà dell'animo tuo, atta tanto più a passion sostenere, quanto ha più d'eccellenza la cosa che piaccia. E quanto tu ragionevolmente ami Sofronia, tanto ingiustamente della fortuna ti duoli, quantunque tu ciò non esprimi, che a me conceduta l'abbia, parendoti il tuo amarla onesto, se d'altrui fosse stata che mia. Ma, se tu se'savio come suoli, a cui la poteva la fortuna concedere, di cui tu più l'avessi a render grazie, che d'averla a me conceduta? Qualunque altro avuta l'avesse, quantunque il tuo amore onesto stato fosse, l'avrebbe egli a sé amata più tosto che a te, il che di me, se così mi tieni amico come io ti sono, non dei sperare; e la cagione è questa, che io non mi ricordo, poi che amici fummo, che io alcuna cosa avessi che così non fosse tua come mia. Il che, se tanto fosse la cosa avanti che altramenti esser non potesse, così ne farei come dell'altre; ma ella è ancora in sì fatti termini, che di te solo la posso fare, e così farò; per ciò che io non so quello che la mia amistà ti dovesse esser cara, se io d'una cosa che onestamente far si puote, non sapessi d'un mio voler far tuo. Egli è il vero che Sofronia è mia sposa, e che io l'amava molto e con gran festa le sue nozze aspettava; ma per ciò che tu, sì come molto più intendente di me, con più fervor disideri così cara cosa come ella è, vivi sicuro che non mia ma tua moglie verrà nella mia camera. E per ciò lascia il pensiero, caccia la malinconia, richiama la perduta sanità e il conforto e l'allegrezza, e da questa ora innanzi lieto aspetta i meriti del tuo molto più degno amore che il mio non era. » Tito, udendo così parlare a Gisippo, quanto la lusinghevole speranza di quello gli porgeva piacere, tanto la debita ragion gli recava vergogna, mostrandogli che quanto più era di Gisippo la liberalità, tanto di lui a usarla pareva la sconvenevolezza maggiore. Per che, non ristando di piagnere, con fatica così gli rispose: « Gisippo, la tua liberale e vera amistà assai chiaro mi mostra quello che alla mia s'appartenga di fare. Tolga via Idio che mai colei, la quale egli sì come a più degno ha a te donata, che io da te la riceva per mia. Se egli avesse veduto che a me si convenisse costei, né tu né altri dee credere che mai a te conceduta l'avesse. Usa adunque lieto la tua elezione e il discreto consiglio e il suo dono, e me nelle lagrime, le quali egli, sì come a indegno di tanto bene, m'ha apparecchiate, consumar lascia, le quali o io vincerò e saratti caro, o esse me vinceranno e sarò fuor di pena. » Al quale Gisippo disse: « Tito, se la nostra amistà mi può concedere tanto di licenzia, che io a seguire un mio piacer ti sforzi, e te a doverlo seguire puote inducere, questo fia quello in che io sommamente intendo d'usarla; e dove tu non condiscenda piacevole a' prieghi miei, con quella forza che ne'beni dello amico usar si dee, farò che Sofronia fia tua. Io conosco quanto possono le forze d'amore, e so che elle, non una volta ma molte, hanno a infelice morte gli amanti condotti; e io veggio te sì presso, che tornare addietro né vincere potresti le lagrime, ma procedendo, vinto verresti meno, al quale io senza alcun dubbio tosto verrei appresso. Adunque, quando per altro io non t'amassi, m'è, acciò che io viva, cara la vita tua. Sarà adunque Sofronia tua, ché di leggiere altra che così ti piacesse non troverresti; e io il mio amore leggiermente a un'altra volgendo, avrò te e me contentato. Alla qual cosa forse così liberal non sarei, se così rade o con quella difficoltà le mogli si trovasser, che si truovan gli amici; e per ciò, potend'io leggerissimamente altra moglie trovare, ma non altro amico, io voglio innanzi (non vo'dir perder lei, ché non la perderò dandola a te, ma a un altro me la trasmuterò di bene in meglio) trasmutarla, che perder te. E per ciò, se alcuna cosa possono in te i prieghi miei, io ti priego che, di questa afflizion togliendoti, a una ora consoli te e me, e con buona speranza ti disponghi a pigliar quella letizia che il tuo caldo amore della cosa amata disidera. » Come che Tito di consentire a questo, che Sofronia sua moglie divenisse, si vergognasse, e per questo duro stesse ancora, tirandolo da una parte amore, e d'altra i conforti di Gisippo sospignendolo, disse: « Ecco, Gisippo, io non so quale io mi dica che io faccia più, o il mio piacere o il tuo, faccendo quello che tu pregando mi di'che tanto ti piace; e poi che la tua liberalità è tanta che vince la mia debita vergogna, e io il farò. Ma di questo ti rendi certo, che io nol fo come uomo che non conosca me da te ricever non solamente la donna amata, ma con quella la vita mia. Facciano gl'Iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me, più pietoso di me che io medesimo, adoperi. » Appresso queste parole disse Gisippo: « Tito, in questa cosa, a volere che effetto abbia, mi par da tener questa via. Come tu sai, dopo lungo trattato de' miei parenti e di quei di Sofronia, essa è divenuta mia sposa, e per ciò, se io andassi ora a dire che io per moglie non la volessi, grandissimo scandalo ne nascerebbe e turberei i suoi e'miei parenti; di che niente mi curerei, se io per questo vedessi lei dover divenir tua; ma io temo, se io a questo partito la lasciassi, che i parenti suoi non la dieno prestamente a un altro, il qual forse non sarai desso tu, e così tu avrai perduto quello che io non avrò acquistato. E per ciò mi pare, dove tu sii contento, che io con quello che cominciato ho seguiti avanti, e sì come mia me la meni a casa e faccia le nozze, e tu poi occultamente, sì come noi saprem fare, con lei sì come con tua moglie ti giacerai. Poi a luogo e a tempo manifesteremo il fatto; il quale, se lor piacerà, bene starà; se non piacerà, sarà pur fatto, e non potendo indietro tornare, converrà per forza che sien contenti. » Piacque a Tito il consiglio: per la qual cosa Gisippo come sua nella sua casa la ricevette, essendo già Tito guarito e ben disposto; e fatta la festa grande, come fu la notte venuta, lasciar le donne la nuova sposa nel letto del suo marito, e andar via. Era la camera di Tito a quella di Gisippo congiunta, e dell'una si poteva nell'altra andare; per che, essendo Gisippo nella sua camera e ogni lume avendo spento, a Tito tacitamente andatosene, gli disse che con la sua donna s'andasse a coricare. Tito vedendo questo, vinto da vergogna, si volle pentere e recusava l'andata; ma Gisippo, che con intero animo, come con le parole, al suo piacere era pronto, dopo lunga tencione vel pur mandò. Il quale, come nel letto giunse, presa la giovane, quasi come sollazzando, chetamente la domandò se sua moglie esser voleva. Ella, credendo lui esser Gisippo, rispose del sì; ond'egli un bello e ricco anello le mise in dito dicendo: « E io voglio esser tuo marito. » E quinci consumato il matrimonio, lungo e amoroso piacer prese di lei, senza che ella o altri mai s'accorgesse che altri che Gisippo giacesse con lei. Stando adunque in questi termini il maritaggio di Sofronia e di Tito, Publio suo padre di questa vita passò; per la qual cosa a lui fu scritto che senza indugio a vedere i fatti suoi a Roma se ne tornasse; e per ciò egli d'andarne e di menarne Sofronia diliberò con Gisippo. Il che, senza manifestarle come la cosa stesse, far non si dovea né potea acconciamente. Laonde, un dì nella camera chiamatala, interamente come il fatto stava le dimostrarono, e di ciò Tito per molti accidenti tra lor due stati la fece chiara. La qual, poi che l'uno e l'altro un poco sdegnosetta ebbe guatato, dirottamente cominciò a piagnere, sé dello inganno di Gisippo ramaricando; e prima che nella casa di Gisippo nulla parola di ciò facesse, se n'andò a casa il padre suo, e quivi a lui e alla madre narrò lo 'nganno il quale ella e eglino da Gisippo ricevuto avevano; affermando sé esser moglie di Tito, e non di Gisippo come essi credevano. Questo fu al padre di Sofronia gravissimo, e co' suoi parenti e con que'di Gisippo ne fece una lunga e gran querimonia, e furon le novelle e le turbazioni molte e grandi. Gisippo era a' suoi e a que'di Sofronia in odio, e ciascun diceva lui degno, non solamente di riprensione, ma d'aspro gastigamento. Ma egli sé onesta cosa aver fatta affermava e da dovernegli essere rendute grazie da' parenti di Sofronia, avendola a miglior di sé maritata. Tito d'altra parte ogni cosa sentiva e con gran noia sosteneva; e conoscendo costume esser de' greci tanto innanzi sospignersi con romori e con le minacce, quanto penavano a trovar chi loro rispondesse, e allora non solamente umili ma vilissimi divenire; pensò più non fossero senza risposta da comportare le lor novelle; e avendo esso animo romano e senno ateniese, con assai acconcio modo i parenti di Gisippo e que'di Sofronia in un tempio fe'ragunare, e in quello entrato, accompagnato da Gisippo solo, così agli aspettanti parlò: « Credesi per molti filosofanti, che ciò che s'adopera da' mortali sia degli iddii immortali disposizione e provvedimento, e per questo vogliono alcuni essere di necessità ciò che ci si fa o farà mai; quantunque alcuni altri sieno che questa necessità impongono a quel che è fatto solamente. Le quali oppinioni se con alcuno avvedimento riguardate fìeno, assai apertamente si vedrà che il riprender cosa che frastornar non si possa, niuna altra cosa è a fare se non volersi più savio mostrare che gl'iddii, li quali noi dobbiam credere che con ragion perpetua e senza alcuno errore dispongono e governan noi e le nostre cose; per che, quanto le loro operazioni ripigliare sia matta presunzione e bestiale, assai leggiermente il potete vedere, e ancora chenti e quali catene coloro meritino che tanto in ciò si lasciano trasportare dall'ardire. De' quali, secondo il mio giudicio, voi siete tutti, se quello è vero che io intendo che voi dovete aver detto e continuamente dite, per ciò che mia moglie Sofronia è divenuta, dove lei a Gisippo avavate data; non riguardando che ab eterno disposto fosse che ella non di Gisippo divenisse ma mia, sì come per effetto si conosce al presente. Ma, per ciò che 'l parlar della segreta provvedenza e intenzion degl'iddii pare a molti duro e grave a comprendere, presupponendo che essi di niuno nostro fatto s'impaccino, mi piace di condiscendere a' consigli degli uomini; de' quali dicendo, mi converrà far due cose molto a' miei costumi contrarie: l'una fia alquanto me commendare, e l'altra il biasimare alquanto altrui o avvilire. Ma, per ciò che dal vero né nell'una né nell'altra non intendo partirmi, e la presente materia il richiede, il pur farò. I vostri ramarichii, più da furia che da ragione incitati, con continui mormorii, anzi romori, vituperano, mordono e dannano Gisippo, per ciò che colei m'ha data per moglie col suo consiglio, che voi a lui col vostro avevate data, laddove io estimo che egli sia sommamente da commendare; e le ragioni son queste: l'una, però che egli ha fatto quello che amico dee fare; l'altra, perché egli ha più saviamente fatto che voi non avevate. Quello che le sante leggi della amicizia vogliono che l'uno amico per l'altro faccia, non è mia intenzion di spiegare al presente, essendo contento d'avervi tanto solamente ricordato di quelle, che il legame della amistà troppo più stringa che quel del sangue o del parentado; con ciò sia cosa che gli amici noi abbiamo quali ce li eleggiamo, e i parenti quali gli ci dà la fortuna. E per ciò, se Gisippo amò più la mia vita che la vostra benivolenza, essendo io suo amico, come io mi tengo, niuno se ne dee maravigliare. Ma vegnamo alla seconda ragione, nella quale con più instanzia vi si convien dimostrare lui più essere stato savio che voi non siete, con ciò sia cosa che della provvidenzia degli iddii niente mi pare che voi sentiate, e molto men conosciate della amicizia gli effetti. Dico che il vostro avvedimento, il vostro consiglio e la vostra diliberazione aveva Sofronia data a Gisippo, giovane e filosafo; quello di Gisippo la diede a giovane e filosafo; il vostro consiglio la diede a ateniese, e quel di Gisippo a romano; il vostro a un gentil giovane, quel di Gisippo a un più gentile; il vostro a un ricco giovane, quel di Gisippo a un ricchissimo; il vostro a un giovane il quale, non solamente non l'amava, ma appena la conosceva; quel di Gisippo a un giovane, il quale sopra ogni sua felicità e più che la propia vita l'amava. E che quello che io dico sia vero, e più da commendare che quello che voi fatto avavate, riguardisi a parte a parte. Che io giovane e filosafo sia come Gisippo, il viso mio e gli studi, senza più lungo sermon farne, il possono dichiarare. Una medesima età è la sua e la mia, e con pari passo sempre proceduti siamo studiando. E il vero ch'egli è ateniese e io romano. Se della gloria della città si disputerà, io dirò che io sia di città libera e egli di tributaria; io dirò che io sia di città donna di tutto 'l mondo, e egli di città obbediente alla mia; io dirò che io sia di città fiorentissima d'arme, d'imperio e di studi, dove egli non potrà la sua se non di studi commendare. Oltre a questo, quantunque voi qui scolar mi veggiate assai umile, io non son nato della feccia del popolazzo di Roma; le mie case e i luoghi publichi di Roma son pieni d'antiche imagini de' miei maggiori, e gli annali romani si troveranno pieni di molti triumfi menati da' Quinzi in sul romano Capitolio, né è per vecchiezza marcita, anzi oggi più che mai fiorisce la gloria del nostro nome. Io mi taccio, per vergogna, delle mie ricchezze, nella mente avendo che l'onesta povertà sia antico e larghissimo patrimonio de' nobili cittadini di Roma; la quale, se dalla oppinione de' volgari è dannata e son commendati i tesori, io ne sono, non come cupido, ma come amato dalla fortuna, abbondante. E assai conosco che egli v'era qui, e dovea essere e dee, caro d'aver per parente Gisippo; ma io non vi debbo per alcuna cagione meno essere a Roma caro, considerando che di me là avrete ottimo oste, e utile e sollicito e possente padrone, così nelle pubbliche opportunità come ne'bisogni privati. Chi dunque, lasciata star la volontà e con ragion riguardando, più i vostri consigli commenderà che quegli del mio Gisippo? Certo niuno. E adunque Sofronia ben maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadin di Roma e amico di Gisippo; per che chi di ciò si duole o si ramarica, non fa quello che dee né sa quello che egli si fa. Saranno forse alcuni che diranno non dolersi Sofronia esser moglie di Tito, ma dolersi del modo nel quale sua moglie è divenuta, nascosamente, di furto, senza saperne amico o parente alcuna cosa. E questo non è miraculo, né cosa che di nuovo avvenga. Io lascio stare volentieri quelle che già contro a volere de' padri hanno i mariti presi; e quelle che i sono con li loro amanti fuggite, e prima amiche sono state che mogli; e quelle che prima con le gravidezze e co' parti hanno i matrimoni palesati che con la lingua, e hagli fatti la necessità aggradire; quello che di Sofronia non è avvenuto; anzi ordinatamente, discretamente e onestamente da Gisippo a Tito è stata data. E altri diranno colui averla maritata a cui di maritarla non apparteneva. Sciocche lamentanze son queste e femminili, e da poca considerazion procedenti. Non usa ora la fortuna di nuovo varie vie e istrumenti nuovi a recare le cose agli effetti diterminati. Che ho io a curare se il calzolaio più tosto che il filosafo avrà d'un mio fatto secondo il suo giudicio disposto o in occulto o in palese, se il fine è buono? Debbomi io ben guardare, se il calzolaio non è discreto, che egli più non ne possa fare, e ringraziarlo del fatto. Se Gisippo ha ben Sofronia maritata, l'andarsi del modo dolendo e di lui è una stultizia superflua. Se del suo senno voi non vi confidate, guardatevi che egli più maritar non ne possa, e di questa il ringraziate. Nondimeno dovete sapere che io non cercai ne con ingegno né con fraude d'imporre alcuna macula all'onestà e alla chiarezza del vostro sangue nella persona di Sofronia; e quantunque io l'abbia occultamente per moglie presa, io non venni come rattore a torle la sua virginità, né come nimico la volli men che onestamente avere, il vostro parentado rifiutando, ma ferventemente acceso della sua vaga bellezza e della virtù di lei; conoscendo, se con quello ordine che voi forse volete dire cercata l'avessi, che, essendo ella molto amata da voi, per tema che io a Roma menata non ne l'avessi, avuta non l'avrei. Usai adunque l'arte occulta che ora vi puote essere aperta, e feci Gisippo, a quello che egli di fare non era disposto, consentire in mio nome; e appresso, quantunque io ardentemente l'amassi, non come amante ma come marito i suoi congiugnimenti cercai, non appressandomi prima a lei, sì come essa medesima può con verità testimoniare, che io con le debite parole e con l'anello l'ebbi sposata, domandandola se ella me per marito volea, a che ella rispose del sì. Se esser le pare ingannata, non io ne son da riprender, ma ella, che me non domandò chi io fossi. Questo è adunque il gran male, il gran peccato, il gran fallo adoperato da Gisippo amico e da me amante, che Sofronia occultamente sia divenuta moglie di Tito Quinzio; per questo il lacerate, minacciate e insidiate. E che ne fareste voi più, se egli a un villano, a un ribaldo, a un servo data l'avesse? Quali catene, qual carcere, quali croci ci basterieno? Ma lasciamo ora star questo: egli è venuto il tempo il quale io ancora non aspettava, cioè che mio padre sia morto e che a me conviene a Roma tornare, per che, meco volendone Sofronia menare, v'ho palesato quello che io forse ancora v'avrei nascoso; il che, se savi sarete, lietamente comporterete, per ciò che, se ingannare o oltraggiare v'avessi voluto, schernita ve la poteva lasciare; ma tolga Idio via questo, che in romano spirito tanta viltà albergar possa giammai. Ella adunque, cioè Sofronia, per consentimento degl'iddii e per vigore delle leggi umane, e per lo laudevole senno del mio Gisippo, e per la mia amorosa astuzia è mia; la qual cosa voi, per avventura più che gli iddii o che gli altri uomini savi tenendovi, bestialmente in due maniere forte a me noiose mostra che voi danniate. L'una è Sofronia tenendovi, nella quale, più che mi piaccia, alcuna ragion non avete; e l'altra è il trattar Gisippo, al quale meritamente obligati siete, come nimico. Nelle quali quanto scioccamente facciate, io non intendo al presente di più aprirvi, ma come amici vi consigliare che si pongano giuso gli sdegni vostri, e i crucci presi si lascino tutti, e che Sofronia mi sia restituita, acciò che io lietamente vostro parente mi parta e viva vostro; sicuri di questo che, o piacciavi o non piacciavi quel che è fatto, se altramenti operare intendeste, io vi torrò Gisippo, e senza fallo, se a Roma pervengo, io riavrò colei che è meritamente mia, malgrado che voi n'abbiate; e quanto lo sdegno de' romani animi possa, sempre nimicandovi, vi farò per esperienzia conoscere. » Poi che Tito così ebbe detto, levatosi in piè tutto nel viso turbato, preso Gisippo per mano, mostrando d'aver poco a cura quanti nel tempio n'erano, di quello, crollando la testa e minacciando, s'uscì. Quegli che là entro rimasono, in parte dalle ragioni di Tito al parentado e alla sua amistà indotti, e in parte spaventati dall'ultime sue parole, di pari concordia diliberarono es sere il miglior d'aver Tito per parente, poi che Gisippo non aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito nimico acquistato. Per la qual cosa andati, ritrovar Tito e dissero che piaceva lor che Sofronia fosse sua, e d'aver lui per caro parente e Gisippo per buono amico; e fattasi parentevole e amichevole festa insieme, si dipartirono e Sofronia gli rimandarono. La qua le, sì come savia, fatta della necessità virtù, l'amore il quale aveva a Gisippo prestamente rivolse a Tito; e con lui se n'andò a Roma, dove con grande onore fu ricevuta. Gisippo, rimasosi in Atene, quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo, per certe brighe cittadine, con tutti quegli di casa sua, povero e meschino fu d'Atene cacciato e dannato a essilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo, e divenuto non solamente povero ma mendico, come potè il men male a Roma se ne venne, per provare se di lui Tito si ricordasse; e saputo lui esser vivo e a tutti i romani grazioso, e le sue case apparate, dinanzi a esse si mise a star tanto che Tito venne; al quale egli per la miseria nella quale era non ardì di far motto, ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito riconoscendolo il facesse chiamare; per che, passato oltre Tito, e a Gisippo parendo che egli veduto l'avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che già per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartì. E essendo già notte e esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s'andasse, più che d'altro di morir disideroso, s'avvenne in uno luogo molto salvatico della città, dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s'addormentò. Alla qual grotta due, li quali insieme erano la notte andati a imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino, e a quistion venuti, l'uno, che era più forte, uccise altro e andò via. La qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via; e per ciò, senza partirsi, tanto stette che i sergenti della corte, che già il fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il quale essaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi; per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto morire in croce, sì come allor s'usava. Era Tito per ventura in quella ora venuto al pretorio; il quale, guardando nel viso il misero condennato e avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo, e maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse; e ardentissimamente disiderando d'aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua salute se non d'accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e gridò: « Marco Varrone, richiama il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è innocente. Io ho assai con una colpa offesi gl'iddii, uccidendo colui il quale i tuoi sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte d'un altro innocente offendergli. » Varrone si maravigliò, e dolfegli che tutto il pretorio l'avesse udito; e non potendo con suo onore ritrarsi di far quello che comandavan le leggi, fece indietro ritornar Gisippo, e in presenzia di Tito gli disse: « Come fostu sì folle che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti giammai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi ucciso l'uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l'ha ucciso. » Gisippo guardò e vide che colui era Tito, e assai ben conobbe lui far questo per la sua salute, sì come grato del servigio già ricevuto da lui. Per che, di pietà piagnendo, disse: « Varrone, veramente io l'uccisi, e la pietà di Tito alla mia salute è omai troppo tarda. » Tito d'altra parte diceva: « Pretore, come tu vedi, costui è forestiere, e senza arme fu trovato allato all'ucciso, e veder puoi la sua miseria dargli cagione di voler morire; e per ciò liberalo, e me, che l'ho meritato, punisci. » Maravigliossi Varrone della instanzia di questi due, e già presummeva niuno dovere essere colpevole, e pensando al modo della loro assoluzione, e ecco venire un giovane, chiamato Publio Ambusto, di perduta speranza e a tutti i Romani notissimo ladrone, il quale veramente l'omicidio aveva commesso; e conoscendo niuno de' due esser colpevole di quello che ciascun s'accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor gli venne per la innocenzia di questi due, che, da grandissima compassion mosso, venne dinanzi a Varrone, e disse: « Pretore, i miei fati mi traggono a dover solvere la dura quistion di costoro, e non so quale iddio dentro mi stimola e infesta a doverti il mio peccato manifestare; e per ciò sappi niun di costoro esser colpevole di quello che ciascuno sé medesimo accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi istamane in sul dì, e questo cattivello che qui è, là vid'io che si dormiva, mentre che io i furti fatti divideva con colui cui io uccisi. Tito non bisogna che io scusi: la sua fama è chiara per tutto, lui non essere uomo di tal condizione; adunque liberagli, e di me quella pena piglia che le leggi m'impongono. » Aveva già Ottaviano questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion movesse ciascuno a volere essere il condannato, la quale ciascun narrò. Ottaviano li due, per ciò che erano innocenti, e il terzo per amor di loro liberò. Tito, preso il suo Gisippo, e molto prima della sua tiepidezza e diffidenzia ripresolo, gli fece maravigliosa festa, e a casa sua nel menò, là dove Sofronia con pietose lagrime il ricevette come fratello; e ricreatolo alquanto, e rivestitolo e ritornatolo nello abito debito alla sua virtù e gentilezza, primieramente con lui ogni suo tesoro e possessione fece comune, e appresso, una sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, gli diè per moglie; e quindi gli disse: « Gisippo, a te sta omai o il volere qui appresso di me dimorare, o volerti con ogni cosa che donata t'ho in Acaia tornare. » Gisippo, costrignendolo da una parte l'essilio che aveva della sua città e d'altra l'amore il qual portava debitamente alla grata amistà di Tito, a divenir romano s'accordò. Dove con la sua Fulvia, e Tito con la sua Sofronia, sempre in una casa gran tempo e lietamente vissero, più ciascun giorno, se più potevano essere, divenendo amici. Santissima cosa adunque è l'amistà, e non solamente di singular reverenzia degna, ma d'essere con perpetua laude commendata, sì come discretissima madre di magnificenzia e d'onestà, sorella di gratitudine e di carità, e d'odio e d'avarizia nimica, sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente operare che in sé vorrebbe che fosse operato. Li cui sacratissimi effetti oggi radissime volte si veggono in due, colpa e vergogna della misera cupidigia de' mortali, la qual solo alla propria utilità riguardando, ha costei fuor degli estremi termini della terra in essilio perpetuo re legata. Quale amore, qual ricchezza, qual parentado avrebbe il fervore, le lagrime e'sospiri di Tito con tanta efficacia fatti a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò la bella sposa gentile e amata da lui avesse fatta divenir di Tito, se non costei? Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovanili braccia di Gisippo ne'luoghi solitari, ne'luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli abbracciamenti della vaga giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei? Quali stati, qua'meriti, quali avanzi avrebbon fatto Gisippo non curar di perdere i suoi parenti e quei di Sofronia, non curar de' disonesti mormorii del popolazzo, non curar delle beffe e de gli scherni, per sodisfare all'amico, se non costei? E d'altra parte, chi avrebbe Tito, senza alcuna diliberazione (possendosi egli onestamente infignere di vedere) fatto prontissimo a procurar la propria morte per levar Gisippo dalla croce la quale egli stesso si procacciava, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna dilazione fatto liberalissimo a comunicare il suo ampissimo patrimonio con Gisippo, al quale la fortuna il suo aveva tolto, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna suspizione fatto ferventissimo a concedere la propia sorella per moglie a Gisippo, il quale vedeva poverissimo e in estrema miseria posto, se non costei? Disiderino adunque gli uomini la moltitudine dei consorti, le turbe de' fratelli, e la gran quantità de' figliuoli, e con gli lor denari il numero de' servidori s'accrescano, e non guardino, qualunque s'è l'uno di questi, ogni minimo suo pericolo più temere, che sollicitudine aver di tor via i grandi del padre o del fratello o del signore, dove tutto il contrario far si vede all'amico. -- NOVELLA NONA Il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello; fassi il passaggio; messer Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano, il quale, riconosciuto e sé fatto riconoscere, sommamente l'onora; messer Torello inferma e per arte magica in una notte n'è recato a Pavia; e alle nozze che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto con lei a casa sua se ne torna. Aveva alle sue parole già Filomena fatta fine, e la magnifica gratitudine di Tito da tutti parimente era stata commendata molto, quando il re, il deretano luogo riservando a Dioneo, così cominciò a parlare: -- Vaghe donne, senza alcun fallo Filomena in ciò che del l'amistà dice racconta 'l vero, e con ragione nel fine delle sue parole si dolfe lei oggi così poco da' mortali esser gradita. E se noi qui per dover correggere i difetti mondani, o pur per riprendergli, fossimo, io seguiterei con diffuso sermone le sue parole; ma per ciò che altro è il nostro fine, a me è caduto nel animo di dimostrarvi forse con una istoria assai lunga, ma piacevol per tutto, una delle magnificenzie del Saladino, acciò che per le cose che nella mia novella udirete, se pienamente l'amicizia d'alcuno non si può per li nostri vizi acquistare, al meno diletto prendiamo del servire, sperando che, quando che sia, di ciò merito ci debba seguire. Dico adunque che, secondo che alcuni affermano, al tempo dello imperadore Federigo primo a racquistare la Terra Santa si fece per li cristiani un general passaggio. La qual cosa il Saladino, valentissimo signore e allora soldano di Babilonia, alquanto dinanzi sentendo, seco propose di volere personalmente vedere gli apparecchiamenti de' signori cristiani a quel passaggio, per meglio poter provvedersi. E ordinato in Egitto ogni suo fatto, sembiante faccendo d'andare in pellegrinaggio, con due de' suoi maggiori e più savi uomini e con tre famigliari solamente, in forma di mercatante si mise in cammino. E avendo cerche molte provincie cristiane, e per Lombardia cavalcando per passare oltre a' monti, avvenne che, andando da Melano a Pavia, e essendo già vespro, si scontrarono in un gentile uomo, il cui nome era messer Torello di Strà da Pavia, il quale con suoi famigliari e con cani e con falconi se n'andava a dimorare a un suo bel luogo il quale sopra 'l Tesino aveva. Li quali come messer Torel vide, avvisò che gentili uomini e stranier fossero, e disiderò d'onorargli. Per che, domandando il Saladino un de' suoi famigliari quanto ancora avesse di quivi a Pavia, e se a ora giugner potesser d'entrarvi, Torello non lasciò rispondere al famigliare, ma rispose egli: « Signori, voi non potrete a Pavia pervenire a ora che dentro possiate entrare. » « Adunque, » disse il Saladino « piacciavi d'insegnarne, per ciò che stranier siamo, dove noi possiamo meglio albergare. » Messer Torello disse: « Questo farò io volentieri; io era testé in pensiero di mandare un di questi miei infin vicin di Pavia per alcuna cosa; io nel manderò con voi, e egli vi conducerà in parte dove voi albergherete assai convenevolmente. » E al più discreto de' suoi accostatosi, gl'impose quello che egli avesse a fare, e mandol con loro; e egli al suo luogo andatosene prestamente, come si potè il meglio fece ordinare una bella cena e metter le tavole in un suo giardino; e questo fatto, sopra la porta se ne venne a aspettargli. Il famigliare, ragionando co' gentili uomini di diverse cose, per certe strade gli trasviò, e al luogo del suo signore, senza che essi se n'accorgessero, condotti gli ebbe. Li quali come messer Torel vide, tutto a piè fattosi loro incontro, ridendo disse: « Signori, voi siate i molto ben venuti. » Il Saladino, il quale accortissimo era, s'avvide che questo cavaliere aveva dubitato che essi non avesser tenuto lo 'nvito, se quando gli trovò invitati gli avesse; per ciò, acciò che negar non potesser d'esser la sera con lui, con ingegno a casa sua gli aveva condotti; e risposto al suo saluto, disse: « Messere, se dei cortesi uomini l'uom si potesse ramaricare, noi ci dorremmo di voi, il quale, lasciamo stare del nostro cammino che impedito alquanto avete, ma, senza altro essere stata da noi la vostra benivolenza meritata che d'un sol saluto, a prender sì alta cortesia, come la vostra è, n'avete quasi costretti. » Il cavalier, savio e ben parlante, disse: « Signori, questa che voi ricevete da me, a rispetto di quella che vi si converrebbe, per quello che io ne'vostri aspetti comprenda, fia povera cortesia; ma nel vero fuor di Pavia voi non potreste essere stati in luogo alcun che buon fosse; e per ciò non vi sia grave l'avere alquanto la via traversata, per un poco men disagio avere. » E così dicendo, la sua famiglia venuta dattorno a costoro, come smontati furono, i cavalli adagiarono; e messer Torello i tre gentili uomini menò alle camere per loro apparecchiate, dove gli fece scalzare e rinfrescare alquanto con freschissimi vini, e in ragionamenti piacevoli infino all'ora di poter cenare gli ritenne. Il Saladino e' compagni e'famigliari tutti sapevan latino, per che molto bene intendevano e erano intesi, e pareva a ciascun di loro che questo cavaliere fosse il più piacevole e 'l più costumato uomo, e quegli che meglio ragionasse che alcun altro che ancora n'avesser veduto. A messer Torello d'altra parte pareva che costoro fossero magnifichi uomini e da molto più che avanti stimato non avea, per che seco stesso si dolea che di compagnia e di più solenne convito quella sera non gli poteva onorare; laonde egli pensò di volere la seguente mattina ristorare, e informato un de' suoi famigli di ciò che far voleva, alla sua donna, che savissima era e di grandissimo animo, nel mandò a Pavia assai quivi vicina e dove porta alcuna non si serrava. E appresso questo menati i gentili uomini nel giardino, cortesemente gli domandò chi e' fossero; al quale il Saladino rispose: « Noi siamo mercatanti cipriani e di Cipri vegniamo, e per nostre bisogne andiamo a Parigi. » Allora disse messer Torello: « Piacesse a Dio che questa nostra contrada producesse così fatti gentili uomini, chenti io veggio che Cipri fa mercatanti. » E di questi ragionamenti in altri stati alquanto, fu di cenar tempo; per che a loro l'onorarsi alla tavola commise, e quivi, secondo cena sprovveduta, furono assai bene e ordinatamente serviti. Né guari, dopo le tavole levate, stettero che, avvisandosi messer Torello loro essere stanchi, in bellissimi letti gli mise a riposare, e esso similmente poco appresso s'andò a dormire. Il familiar mandato a Pavia fé l'ambasciata alla donna, la quale non con feminile animo, ma con reale, fatti prestamente chiamare degli amici e de' servidori di messer Torello assai, ogni cosa opportuna a grandissimo convito fece apparecchiare, e a lume di torchio molti de' più nobili cittadini fece al convito invitare, e fe'torre panni e drappi e vai, e compiutamente mettere in ordine ciò che dal marito l'era stato mandato a dire. Venuto il giorno, i gentili uomini si levarono, coi quali messer Torello montato a cavallo e fatti venire i suoi falconi, a un guazzo vicin gli menò, e mostrò loro come essi volassero. Ma dimandando il Saladin di alcuno che a Pavia e al migliore albergo gli conducesse, disse messer Torello: « Io sarò desso, per ciò che esser mi vi conviene. » Costoro credendolsi furon contenti, e insieme con lui entrarono in cammino; e essendo già terza e essi alla città pervenuti, avvisando d'essere al migliore albergo inviati, con messer Torello alle sue case pervennero, dove già ben cinquanta de' maggiori cittadini eran venuti per ricevere i gentili uomini, a' quali subitamente furon dintorno a' freni e alle staffe. La qual cosa il Saladino e'compagni veggendo, troppo s'avvisaron ciò che era, e dissono: « Messer Torello, questo non è ciò che noi v'avam domandato; assai n'avete questa notte passata fatto, e troppo più che noi non vagliamo, per che acconciamente ne potevate lasciare andare al cammin nostro. » A' quali messer Torello rispose: « Signori, di ciò che iersera vi fu fatto, so io grado alla fortuna più che a voi, la quale a ora vi colse in cammino che bisogno vi fu di venire alla mia piccola casa; di questo di stamattina sarò io tenuto a voi, e con meco insieme tutti questi gentili uomini che dintorno vi sono, a' quali, se cortesia vi par fare il negar di voler con loro desinare, far lo potete se voi volete. » Il Saladino e'compagni vinti smontarono, e ricevuti da' gentili uomini lietamente furono alle camere menati, le quali ricchissimamente per loro erano apparecchiate; e posti giù gli arnesi da camminare e rinfrescatisi alquanto, nella sala, dove splendidamente era apparecchiato, vennero. E data l'acqua alle mani e a tavola messi con grandissimo ordine e bello, di molte vivande magnificamente furon serviti, in tanto che, se lo 'mperadore venuto vi fosse, non si sarebbe più potuto fargli d'onore. E quantunque il Saladino e'compagni fossero gran signori e usi di vedere grandissime cose, nondimeno si maravigliarono essi molto di questa, e lor pareva delle maggiori, avendo rispetto alla qualità del cavaliere, il qual sapevano che era cittadino e non signore. Finito il mangiare e le tavole levate, avendo alquanto d'alte cose parlato, essendo il caldo grande, come a messer Torel piacque, i gentili uomini di Pavia tutti s'andarono a riposare, e esso con li suoi tre rimase, e con loro in una camera entratosene, acciò che niuna sua cara cosa rimanesse che essi veduta non avessero, quivi si fece la sua valente donna chiamare. La quale, essendo bellissima e grande della persona, e di ricchi vestimenti ornata, in mezzo di due suoi figlioletti, che parevano due agnoli, se ne venne davanti a costoro e piacevolmente gli salutò. Essi vedendola si levarono in piè, e con reverenzia la ricevettono, e fattala sedere fra loro, gran festa fecero de' due belli suoi figlioletti. Ma poi che con loro in piacevoli ragionamenti entrata fu, essendosi alquanto partito messer Torello, essa piacevolmente donde fossero e dove andassero gli domandò; alla qual i gentili uomini così risposero come a messer Torello avevan fatto. Allora la donna con lieto viso disse: « Adunque veggo che il mio feminile avviso sarà utile, e per ciò vi priego, che di spezial grazia mi facciate di non rifiutare né avere a vile quel piccioletto dono il quale io vi farò venire; ma, considerando che le donne secondo il lor piccol cuore piccole cose danno, più al buono animo di chi dà riguardando che alla quantità del dono, il prendiate. » E fattesi venire per ciascuno due paia di robe, l'un foderato di drappo e l'altro di vaio, non miga cittadine né da mercatanti, ma da signore, e tre giubbe di zendalo e pannilini, disse: « Prendete queste: io ho delle robe il mio signore vestito con voi; l'altre cose, considerando che voi siete alle vostre donne lontani, e la lunghezza del cammin fatto e quel la di quel che è a fare, e che i mercatanti son netti e dilicati uomini, ancor che elle vaglian poco, vi potranno esser care. » I gentili uomini si maravigliarono, e apertamente conobber messer Torello niuna parte di cortesia voler lasciare a far loro, e dubitarono, veggendo la nobiltà delle robe non mercatantesche, di non esser da messer Torello conosciuti; ma pure alla donna rispose l'un di loro: « Queste son, madonna, grandissime cose e da non dover di leggier pigliare, se i vostri prieghi a ciò non ci strignessero, alli quali dir di no non si puote. » Questo fatto, essendo già messer Torello ritornato, la donna, accomandatigli a Dio, da lor si partì, e di simili cose di ciò, quali a loro si convenieno, fece provvedere a' famigliari. Messer Torello con molti prieghi impetrò da loro che tutto quel dì dimorasson con lui; per che, poi che dormito ebbero, vestitisi le robe loro, con messer Torello alquanto cavalcar per la città, e l'ora della cena venuta, con molti onorevoli compagni magnificamente cenarono. E quando tempo fu, andatisi a riposare, come il giorno venne su si levarono, e trovarono in luogo de' loro ronzini stanchi tre grossi pallafreni e buoni, e similmente nuovi cavalli e forti alli loro famigliari. La qual cosa veggendo il Saladino, rivolto a' suoi compagni disse: « Io giuro a Dio, che più compiuto uomo né più corte se né più avveduto di costui non fu mai; e se li re cristiani son così fatti re verso di sé chente costui è cavaliere, al soldano di Babilonia non ha luogo d'aspettare pure un, non che tanti, quanti, per addosso andargliene, veggiam che s'apparecchiano »; ma sappiendo che il rinunziargli non avrebbe luogo, assai cortesemente ringraziandolne, montarono a cavallo. Messer Torello con molti compagni gran pezza di via gli accompagnò fuor della città; e quantunque al Saladino il partirsi da messer Torello gravasse (tanto già innamorato se n'era), pure, strignendolo l'andata, il pregò che indietro se ne tornasse. Il quale, quantunque duro gli fosse il partirsi da loro, disse: « Signori, io il farò poi che vi piace, ma così vi vo' dire: io non so chi voi vi siete, né di saperlo, più che vi piaccia, addomando; ma chi che voi vi siate, che voi siate mercatanti non lascerete voi per credenza a me questa volta; e a Dio vi comando. » Il Saladino, avendo già da tutti i compagni di messer Torello preso commiato, gli rispose dicendo: « Messere, egli potrà ancora avvenire che noi vi farem vedere di nostra mercatantia, per la quale noi la vostra credenza raffermeremo; e andatevi con Dio. » Partissi adunque il Saladino e'compagni, con grandissimo animo, se vita gli durasse e la guerra la quale aspettava nol disfacesse, di fare ancora non minore onore a messer Torello che egli a lui fatto avesse; e molto e di lui e del la sua donna e di tutte le sue cose e atti e fatti ragionò co' compagni, ogni cosa più commendando. Ma poi che tutto il Ponente non senza gran fatica ebbe cercato, entrato in mare, co' suoi compagni se ne tornò in Alessandria, e pienamente informato si dispose alla difesa. Messer Torello se ne tornò in Pavia, e in lungo pensier fu chi questi tre esser potessero, né mai al vero non aggiunse né s'appressò. Venuto il tempo del passaggio, e faccendosi l'apparecchiamento grande per tutto, messer Torello, non ostante i prieghi della sua donna e le lagrime, si dispose a andarvi del tutto; e avendo ogni appresto fatto, e essendo per cavalcare, disse alla sua donna, la quale egli sommamente amava: « Donna come tu vedi, io vado in questo passaggio sì per onor del corpo e sì per salute dell'anima; io ti raccomando le nostre cose, e 'l nostro onore; e per ciò che io sono dell'andar certo, e del tornare, per mille casi che posson sopravvenire, niuna certezza ho, voglio io che tu mi facci una grazia; che che di me s'avvegna, ove tu non abbi certa novella della mia vita, che tu m'aspetti uno anno e un mese e un dì senza rimaritarti, incominciando da questo dì che io mi parto. » La donna, che forte piagneva, rispose: « Messer Torello, io non so come io mi comporterò il dolore nel qual, partendovi voi, mi lasciate; ma, dove la mia vita sia più forte di lui e altro di voi avvenisse, vivete e morite sicuro che io viverò e morrò moglie di messer Torello e della sua memoria. » Alla qual messer Torello disse: « Donna, certissimo sono, che, quanto in te sarà, che questo che tu mi prometti avverrà; ma tu se'giovane donna, e se'bella e se'di gran parentado, e la tua virtù è molta e è conosciuta per tutto; per la qual cosa io non dubito che molti grandi e gentili uomini, se niente di me si suspicherà, non ti domandino a' tuoi fratelli e a' parenti; dagli stimoli de' quali, quantunque tu vogli, non ti potrai difendere, e per forza ti converrà compiacere a' voler loro; e questa è la cagion per la quale io questo termine, e non maggiore, ti dimando. » La donna disse: « Io farò ciò che io potrò di quello che detto v'ho; e quando pure altro far mi convenisse, io v'ubidirò, di questo che m'imponete, certamente. Priego io Idio che a così fatti termini né voi né me rechi a questi tempi. » Finite le parole, la donna piagnendo abbracciò messer Torello, e trattosi di dito un anello, gliele diede dicendo: « Se egli avviene che io muoia prima che io vi rivegga, ricordivi di me quando il vedrete. » E egli presolo montò a cavallo, e detto a ogn'uomo addio, andò a suo viaggio; e pervenuto a Genova con sua compagnia, montato in galea andò via, e in poco tempo per venne a Acri, e con l'altro essercito de' cristiani si congiunse. Nel quale quasi a mano a man cominciò una grandissima infermeria e mortalità; la qual durante, qual che si fosse l'arte o la fortuna del Saladino, quasi tutto il rimaso degli scampati cristiani da lui a man salva fur presi, e per molte città divisi e imprigionati; fra'quali presi messer Torello fu uno, e in Alessandria menato in prigione. Dove non essendo conosciuto e temendo esso di farsi conoscere, da necessità costretto si diede a conciare uccelli, di che egli era grandissimo maestro, e per questo a notizia venne del Saladino: laonde egli di prigione il trasse, e ritennelo per suo falconiere. Messer Torello, che per altro nome che il Cristiano dal Saladino non era chiamato, il quale egli non riconosceva né il soldano lui, solamente in Pavia l'animo avea e più volte di fuggirsi aveva tentato, né gli era venuto fatto; per che esso, venuti certi genovesi per ambasciadori al Saladino per la ricompera di certi lor cittadini, e dovendosi partire, pensò di scrivere alla donna sua come egli era vivo e a lei come più tosto potesse tornerebbe, e che ella l'attendesse; e così fece; e caramente pregò un degli ambasciadori che conoscea, che facesse che quelle alle mani dell'abate di San Pietro in Ciel d'oro, il qual suo zio era, pervenissero. E in questi termini stando messer Torello, avvenne un giorno che, ragionando con lui il Saladino di suoi uccelli, messer Torello cominciò a sorridere e fece uno atto con la bocca, il quale il Saladino, essendo a casa sua a Pavia, aveva molto notato. Per lo quale atto al Saladino tornò alla mente messer Torello, e cominciò fiso a riguardallo e parvegli desso; per che, lasciato il primo ragionamento, disse: « Dimmi, Cristiano, di che paese se' tu di Ponente? » « Signor mio, » disse messer Torello « io sono lombardo, d'una città chiamata Pavia, povero uomo e di bassa condizione. » Come il Saladino udì questo, quasi certo di quello che dubitava, fra sé lieto disse: -- Dato m'ha Idio tempo di mostrare a costui quanto mi fosse a grado la sua cortesia; -- e senza altro dire, fattisi tutti i suoi vestimenti in una camera acconciare, vel menò dentro e disse: « Guarda, Cristiano, se tra queste robe n'è alcuna che tu vedessi giammai. » Messer Torello cominciò a guardare, e vide quelle che al Saladino aveva la sua donna donate, ma non estimò dover potere essere che desse fossero, ma tuttavia rispose: « Signor mio, niuna ce ne conosco; è ben vero, che quelle due somiglian robe di che io già con tre mercatanti, che a casa mia capitarono, vestito ne fui. » Allora il Saladino, più non potendo tenersi, teneramente l'abbracciò, dicendo: « Voi siete messer Torel di Strà, e io sono l'uno de' tre mercatanti a' quali la donna vostra donò queste robe; e ora è venuto il tempo di far certa la vostra credenza qual sia la mia mercatantia, come nel partirmi da voi dissi che potrebbe avvenire. » Messer Torello questo udendo, cominciò a esser lietissimo e a vergognarsi; a esser lieto d'avere avuto così fatto oste, a vergognarsi che poveramente gliele pareva aver ricevuto. A cui il Saladin disse: « Messer Torello, poi che Idio qui mandato mi v'ha, pensate che non io oramai, ma voi qui siate il signore. » E fattasi la festa insieme grande, di reali vestimenti il fe'vestire, e nel cospetto menatolo di tutti i suoi maggiori baroni, e molte cose in laude del suo valor dette, comandò che da ciascun che la sua grazia avesse cara, così onorato fosse come la sua persona. Il che da quindi innanzi ciascun fece, ma molto più che gli altri i due signori li quali compagni erano stati del Saladino in casa sua. L'altezza della subita gloria, nella qual messer Torel si vide, alquanto le cose di Lombardia gli trassero della mente, e massimamente per ciò che sperava fermamente le sue lettere dovere essere al zio pervenute. Era nel campo o vero essercito de' cristiani, il dì che dal Saladino furon presi, morto e sepellito un cavalier provenzale di piccol valore, il cui nome era messer Torello di Dignes; per la qual cosa, essendo messer Torel di Stra per la sua nobiltà per lo essercito conosciuto, chiunque udì dire: « Messer Torello è morto » credette di messer Torel di Strà, e non di quel di Dignes; e il caso, che sopravvenne, della presura, non lasciò sgannar gl'ingannati; per che molti italici tornarono con questa novella, tra'quali furono de' sì presuntuosi che ardiron di dire sé averlo veduto morto e essere stati alla sepoltura. La qual cosa saputa dalla donna e da' parenti di lui fu di grandissima e inestimabile doglia cagione, non solamente a loro, ma a ciascuno che conosciuto l'avea. Lungo sarebbe a mostrare qual fosse e quanto il dolore e la tristizia e 'pianto della sua donna, la quale dopo al quanti mesi che con tribulazion continua doluta s'era e a men dolersi avea cominciato, essendo ella da' maggiori uomini di Lombardia domandata, da' fratelli e dagli altri suoi parenti fu cominciata a sollicitare di rimaritarsi. Il che ella molte volte e con grandissimo pianto avendo negato, costretta, alla fine le convenne far quello che vollero i suoi parenti, con questa condizione che ella dovesse stare senza a marito andarne tanto quanto ella aveva promesso a messer Torello. Mentre in Pavia eran le cose della donna in questi termini, e già forse otto dì al termine del doverne ella andare a marito eran vicini, avvenne che messer Torello in Alessandria vide un dì uno, il qual veduto avea con gli ambasciadori genovesi montar sopra la galea che a Genova ne venia; per che, fattolsi chiamare, il domandò che viaggio avuto avessero, e quando a Genova fosser giunti. Al quale costui disse: « Signor mio, malvagio viaggio fece la galea, sì come in Creti sentii, là dove io rimasi; per ciò che, essendo ella vicina di Cicilia, si levò una tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la percosse, né ne scampò testa, e intra gli altri, due miei fratelli vi perirono. » Messer Torello, dando alle parole di costui fede, che eran verissime, e ricordandosi che il termine ivi a pochi dì finiva da lui domandato alla donna, e avvisando niuna cosa di suo stato doversi sapere a Pavia, ebbe per constante la donna dovere essere rimaritata; di che egli in tanto dolor cadde, che, perdutone il mangiare e a giacer postosi, diliberò di morire. La qual cosa come il Saladin sentì, che sommamente l'amava, venne da lui; e dopo molti prieghi e grandi fattigli, saputa la cagion del suo dolore e della sua infermità, il biasimò molto che avanti non gliele aveva detto, e appresso il pregò che si confortasse, affermandogli che, dove questo facesse, egli adopererebbe sì che egli sarebbe in Pavia al termine dato, e dissegli come. Messer Torello, dando fede alle parole del Saladino, e avendo molte volte udito dire che ciò era possibile e fatto s'era assai volte, si 'ncominciò a confortare, e a sollicitare il Saladino che di ciò si diliberasse. Il Saladino a un suo nigromante, la cui arte già espermentata aveva, impose che egli vedesse via come messer Torello sopra un letto in una notte fosse portato a Pavia; a cui il nigromante rispose che ciò saria fatto, ma che egli per ben di lui il facesse dormire. Ordinato questo, tornò il Saladino a messer Torello, e trovandol del tutto disposto a volere pure essere in Pavia al termine dato, se esser potesse, e se non potesse, a voler morire, gli disse così: « Messer Torello, se voi affettuosamente amate la donna vostra e che ella d'altrui non divegna dubitate, sallo Idio che io in parte alcuna non ve ne so riprendere, per ciò che di quante donne mi parve veder mai ella è colei li cui costumi, le cui maniere e il cui abito, lasciamo star la bellezza che è fior caduco, più mi paion da commendare e da aver care. Sarebbemi stato carissimo, poi che la fortuna qui v'aveva mandato, che quel tempo che voi e io viver dobbiamo, nel governo del regno che io tengo, parimente signori vivuti fossimo insieme; e se questo pur non mi dovea esser conceduto da Dio, dovendovi questo cader nell'animo, o di morire o di ritrovarvi al termine posto in Pavia, sommamente avrei disiderato d'averlo saputo a tempo, che io con quello onore, con quella grandezza, con quella compagnia che la vostra virtù merita, v'avessi fatto porre a casa vostra; il che poi che conceduto non m'è, e voi pur disiderate d'esser là di presente, come io posso, nella forma che detta v'ho, ve ne manderò. » Al qual messer Torello disse: « Signor mio, senza le vostre parole m'hanno gli effetti assai dimostrato della vostra benivolenzia, la qual mai da me in sì supremo grado non fu meritata, e di ciò che voi dite, eziandio non dicendolo, vivo e morrò certissimo; ma poi che così preso ho per partito, io vi priego che quello che mi dite di fare si faccia tosto, per ciò che domane è l'ultimo dì che io debbo essere aspettato. » Il Saladino disse che ciò senza fallo era fornito; e il seguente dì, attendendo di mandarlo via la veniente notte, fece il Saladin fare in una gran sala un bellissimo e ricco letto di materassi, secondo la loro usanza, tutti di velluti e di drappi a oro, e fecevi por suso una coltre lavorata a certi compassi di perle grossissime e di carissime pietre preziose, la qual fu poi di qua stimata infinito tesoro, e due guanciali quali a così fatto letto si richiedeano. E questo fatto, comandò che a messer Torello, il quale era già forte, fosse messa in dosso una roba alla guisa saracinesca, la più ricca e la più bella cosa che mai fosse stata veduta per alcuno, e in testa alla lor guisa gli fece una del le sue lunghissime bende ravvolgere. E essendo già l'ora tarda, il Saladino con molti de' suoi baroni nella camera là dove messer Torello era, se n'andò, e postoglisi a sedere allato, quasi lagrimando a dir cominciò: « Messer Torello, l'ora che da voi divider mi dee s'appressa, e per ciò che io non posso né accompagnarvi né far vi accompagnare, per la qualità del cammino che a fare ave te che nol sostiene, qui in camera da voi mi convien prender commiato, al qual prendere venuto sono. E per ciò, prima che io a Dio v'accomandi, vi priego per quello amore e per quella amistà, la qual è tra noi, che di me vi ricordi; e, se possibile è, anzi che i nostri tempi finiscano, che voi, avendo in ordine poste le vostre cose di Lombardia, una volta almeno a veder mi vegniate, acciò che io possa in quella, essendomi d'avervi veduto rallegrato, quel difetto supplire che ora per la vostra fretta mi convien commettere; e infino che questo avvenga, non vi sia grave visitarmi con lettere, e di quelle cose che vi piaceranno richiedermi, che più volentier per voi che per alcuno uom che viva le farò certamente. » Messer Torello non potè le lagrime ritenere, e per ciò da quelle impedito, con poche parole rispose impossibil dover essere che mai i suoi benefici e il suo valore di mente gli uscissero, e che senza fallo quello che egli gli domandava farebbe, dove tempo gli fosse prestato. Per che il Sa ladino, teneramente abbracciatolo e baciatolo, con molte lagrime gli disse: « Andate con Dio »; e della camera s'uscì, e gli altri baroni appresso tutti da lui s'accomiatarono, e col Saladino in quella sala ne vennero, là dove egli avea fatto il letto acconciare. Ma essendo già tardi e il nigromante aspettando lo spaccio e affrettandolo, venne un medico con un beveraggio, e fattogli vedere che per fortificamento di lui gliele dava, gliel fece bere; né stette guari che addormentato fu. E così dormendo fu portato per comandamento del Saladino in su il bel letto, sopra il quale esso una grande e bella corona pose di gran valore, e sì la segnò, che apertamente fu poi compreso quella dal Saladino alla donna di messer Torello esser mandata. Appresso mise in dito a messer Torello uno anello, nel quale era legato un carbunculo, tanto lucente che un torchio acceso pareva, il valor del quale appena si poteva stimare; quindi gli fece una spada cignere, il cui guernimento non si saria di leggieri apprezzato; e oltre a questo un fermaglio gli fe'davanti appiccare, nel qual erano perle mai simili non vedute, con altre care pietre assai; e poi da ciascun de' lati di lui due grandissimi bacin d'oro pieni di doble fe' porre, e molte reti di perle e anella e cinture e altre cose, le quali lungo sarebbe a raccontare, gli fece metter da torno. E questo fatto, da capo baciò messer Torello, e al nigromante disse che si spedisse; per che incontanente in presenzia del Saladino il letto con tutto messer Torello fu tolto via, e il Saladino co' suoi baroni di lui ragionando si rimase. Era già nella chiesa di San Piero in Ciel d'oro di Pavia, sì come dimandato avea, stato posato messer Torello con tutti i sopradetti gioielli e ornamenti, e ancor si dormiva, quando, sonato già il matutino, il sagrestano nella chiesa entrò con un lume in mano, e occorsogli subitamente di vedere il ricco letto, non solamente si maravigliò, ma, avuta grandissima paura, indietro fuggendo si tornò; il quale l'abate e'monaci veggendo fuggire, si maravigliarono e domandarono della cagione. Il monaco la disse. « Oh! » disse l'abate e sì non se' tu oggimai fanciullo né se'in questa chiesa nuovo, che tu così leggermente spaventar ti debbi; ora andiam noi, veggiamo chi t'ha fatto baco. Accesi adunque più lumi, l'abate con tutti i suoi monaci nella chiesa entrati videro questo letto così maraviglioso e ricco, e sopra quello il cavalier che dormiva; e mentre dubitosi e timidi, senza punto al letto accostarsi, le nobili gioie riguardavano, avvenne che, essendo la virtù del beveraggio consumata, che messer Torello destatosi gittò un gran sospiro. Li monaci come questo videro, e l'abate con loro, spaventati e gridando: « Domine aiutaci, » tutti fuggirono. Messer Torello, aperti gli occhi e dattorno guatatosi, conobbe manifestamente sé essere là dove al Saladino domandato avea, di che forte fu seco contento; per che, a seder levatosi e partitamente guardando ciò che dattorno avea, quantunque prima avesse la magnificenzia del Saladin conosciuta, ora gli parve maggiore e più la conobbe. Non per tanto, senza altramenti mutarsi, sentendo i monaci fuggire e avvisatosi il perché, cominciò per nome a chiamar l'abate e a pregarlo che egli non dubitasse, per ciò che egli era Torel suo nepote. L'abate, udendo questo, divenne più pauroso, come co lui che per morto l'avea di molti mesi innanzi; ma dopo alquanto, da veri argomenti rassicurato, sentendosi pur chiamare, fattosi il segno della santa croce, andò a lui. Al quale messer Torel disse: « O padre mio, di che dubitate voi? Io son vivo, la Dio mercé, e qui d'oltre mar ritornato. » L'abate, con tutto che egli avesse la barba grande e in abito arabesco fosse, pure dopo alquanto il raffigurò e, rassicuratosi tutto, il prese per la mano e disse: « Figliuol mio, tu sii il ben tornato »; e seguitò: « Tu non ti dei maravigliare della nostra paura, per ciò che in questa terra non ha uomo che non creda fermamente che tu morto sii, tanto che io ti so dire che madonna Adalieta tua moglie, vinta dai prieghi e dalle minacce de' parenti suoi, e contro a suo volere, è rimaritata, e questa mattina ne dee ire al nuovo marito, e le nozze e ciò che a festa bisogno fa è apparecchiato. » Messer Torello, levatosi d'in su il ricco letto e fatta all'abate e a' monaci maravigliosa festa, ognun pregò che di questa sua tornata con alcun non parlasse, infino a tanto che egli non avesse una sua bisogna fornita. Appresso questo, fatto le ricche gioie porre in salvo, ciò che avvenuto gli fosse infino a quel punto raccontò all'abate. L'abate, lieto delle sue fortune, con lui insieme rendè grazie a Dio. Appresso questo domandò messer Torel l'abate, chi fosse il nuovo marito della sua donna. L'abate gliele disse. A cui messer Torel disse: « Avanti che di mia tornata si sappia, io intendo di veder che contenenza sia quella di mia mogliere in queste nozze; e per ciò, quantunque usanza non sia le persone religiose andare a così fatti conviti, io voglio che per amor di me voi ordiniate che noi v'andiamo. » L'abate rispose che volentieri; e come giorno fu fatto, mandò al nuovo sposo dicendo che con un compagno voleva essere alle sue nozze; a cui il gentile uomo rispose che molto gli piaceva. Venuta dunque l'ora del mangiare, messer Torello, in quello abito che era, con lo abate se n'andò alla casa del novello sposo, con maraviglia guatato da chiunque il vedeva, ma riconosciuto da nullo; e l'abate a tutti diceva lui essere un saracino mandato dal soldano al re di Francia ambasciadore. Fu adunque messer Torel messo a una tavola appunto rimpetto alla donna sua, la quale egli con grandissimo piacer riguardava, e nel viso gli pareva turbata di queste nozze. Ella similmente alcuna volta guardava lui; non già per conoscenza alcuna che ella n'avesse, ché la barba grande e lo strano abito e la ferma credenza che ella aveva che fosse morto, gliele toglievano, ma per la novità dell'abito. Ma poi che tempo parve a messer Torello di volerla tentare se di lui si ricordasse, recatosi in mano l'anello che dalla donna nella sua partita gli era stato donato, si fece chiamare un giovinetto che davanti a lei serviva, e dissegli: « Di'da mia parte alla nuova sposa, che nelle mie contrade s'usa quando alcun forestiere, come io son qui, mangia al convito d'alcuna sposa nuova, come ella è, in segno d'aver caro che egli venuto vi sia a mangiare, ella la coppa con la quale bee gli manda piena di vino, con la quale, poi che il forestiere ha bevuto quello che gli piace, ricoperchiata la coppa, la sposa bee il rimanente. » Il giovinetto fé l'ambasciata alla donna, la quale, sì come costumata e savia, credendo costui essere un gran barbassoro, per mostrare d'avere a grado la sua venuta, una gran coppa dorata, la qual davanti avea, comandò che lavata fosse e empiuta di vino e portata al gentile uomo, e così fu fatto. Messer Torello, avendosi l'anello di lei messo in bocca, sì fece che bevendo il lasciò cadere nella coppa, senza avvedersene alcuno, e poco vino lasciatovi, quella ricoperchiò e mandò alla donna. La quale presala, acciò che l'usanza di lui compiesse, scoperchiatala, se la mise a bocca e vide l'anello, e senza dire alcuna cosa alquanto il riguardò; e riconosciuto che egli era quello che dato avea nel suo partire a messer Torello, presolo e fiso guardato colui il qual forestiere credeva, e già conoscendolo, quasi furiosa divenuta fosse, gittata in terra la tavola che davanti aveva, gridò:« Questi è il mio signore; questi veramente è messer Torello! » E corsa alla tavola alla quale esso sedeva, senza aver riguardo a' suoi drappi o a cosa che sopra la tavola fosse, gittatasi oltre quanto potè, l'abbracciò strettamente, né mai dal suo collo fu potuta, per detto o per fatto d'alcuno che quivi fosse, levare, infino a tanto che per messer Torello non le fu detto che alquanto sopra sé stesse, per ciò che tempo da abbracciarlo le sarebbe ancor prestato assai. Allora ella dirizzatasi, essendo già le nozze tutte turbate, e in parte più liete che mai per lo racquisto d'un così fatto cavaliere, pregandone egli, ogni uomo stette cheto; per che messer Torello dal dì della sua partita infino a quel punto ciò che avvenuto gli era a tutti narrò, conchiudendo che al gentile uomo, il quale, lui morto credendo, aveva la sua donna per moglie presa, se egli essendo vivo la si ritoglieva, non doveva spiacere. Il nuovo sposo, quantunque alquanto scornato fosse, liberamente e come amico rispose che delle sue cose era nel suo volere quel farne che più gli piacesse. La donna e l'anella e la corona avute dal nuovo sposo quivi lasciò, e quello che della coppa aveva tratto si mise, e similmente la corona mandatale dal soldano; e usciti della casa dove erano, con tutta la pompa delle nozze infino alla casa di messer Torel se n'andarono; e quivi gli sconsolati amici e parenti e tutti i cittadini, che quasi per un miracolo il riguardavano, con lunga e lieta festa racconsolarono. Messer Torello, fatta delle sue care gioie parte a colui che avute avea le spese delle nozze e all'abate e a molti altri, e per più d'un messo significata la sua felice repatriazione al Saladino, suo amico e suo servidore ritenendosi, più anni con la sua valente donna poi visse, più cortesia usando che mai. Cotale adunque fu il fin delle noie di messer Torello e di quelle della sua cara donna, e il guiderdone delle lor liete e preste cortesie. Le quali molti si sforzano di fare, che, benché abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le fanno assai più comperar che non vagliono, che fatte l'abbiano, per che, se loro merito non ne segue, né essi né altri maravigliar se ne dee. -- NOVELLA DECIMA Il marchese di Saluzzo da' prieghi de' suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo piglia una figliuola d'un villano, della quale ha due figlioli, li quali le fa veduto d'uccidergli; poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere altra moglie presa a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e a ogni cosa trovandola paziente, più cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi le mostra e come marchesana l'onora e fa onorare. Finita la lunga novella del re, molto a tutti nel sembiante piaciuta, Dioneo ridendo disse: -- Il buono uomo che aspettava la seguente notte di fare abbassare la coda ritta della fantasima, avrebbe dati men di due denari di tutte le lode che voi date a messer Torello --; e appresso, sappiendo che a lui solo restava il dire, incominciò: -- Mansuete mie donne, per quel che mi paia, questo dì d'oggi è stato dato a re e a soldani e a così fatta gente; e per ciò, acciò che io troppo da voi non mi scosti, vo'ragionar d'un marchese, non cosa magnifica, ma una matta bestialità, come che bene ne gli seguisse alla fine. La quale io non consiglio alcun che segua, per ciò che gran peccato fu che a costui ben n'avvenisse. Già è gran tempo, fu tra'marchesi di Saluzzo il maggior della casa un giovane chiamato Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, né di prender moglie né d'aver figliuoli alcun pensiere avea, di che egli era da reputar molto savio. La qual cosa a' suoi uomini non piacendo, più volte il pregarono che moglie prendesse, acciò che egli senza erede né essi senza signor rimanessero, offerendosi di trovargliele tale e di sì fatto padre e madre discesa, che buona speranza se ne potrebbe avere, e esso contentarsene molto. A' quali Gualtieri rispose: « Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co' suoi costumi ben si convenga, e quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé conveniente s'abbatte. E il dire che voi vi crediate a' costumi de' padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza; con ciò sia cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere, né come i segreti delle madri di quelle; quantunque, pur conoscendoli, sieno spesse volte le figliuole a' padri e alle madri dissimili. Ma poi che pure in queste catene vi piace d'annodarmi, e io voglio esser contento; e acciò che io non abbia da dolermi d'altrui che di me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l'aver contra mia voglia presa mogliere a' vostri prieghi. » I valenti uomini risposon ch'eran contenti, sol che esso si recasse a prender moglie. Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d'una povera giovinetta che d'una villa vicina a casa sua era, e parendogli bella assai, estimò che con costei dovesse aver vita assai consolata; e per ciò, senza più avanti cercare, costei propose di volere sposare; e fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era, si convenne di torla per moglie. Fatto questo, fece Gualtieri tutti i suoi amici della contrada adunare, e disse loro: « Amici miei, egli v'è piaciuto e piace che io mi disponga a tor moglie, e io mi vi son disposto più per compiacere a voi che per disiderio che io di moglie avessi. Voi sapete quello che voi mi prometteste, cioè d'esser contenti e d'onorar come donna qualunque quella fosse che io togliessi; e per ciò venuto è il tempo che io sono per servare a voi la promessa, e che io voglio che voi a me la serviate. Io ho trovata una giovane secondo il cuor mio, assai presso di qui, la quale io intendo di tor per moglie e di menarlami fra qui a pochi dì a casa; e per ciò pensate come la festa delle nozze sia bella, e come voi onorevolmente ricever la possiate, acciò che io mi possa della vostra promession chiamar contento, come voi della mia vi potrete chiamare. » I buoni uomini lieti tutti risposero ciò piacer loro, e che, fosse chi volesse, essi l'avrebber per donna e onorerebbonla in tutte cose sì come donna. Appresso questo, tutti si misero in assetto di far bella e grande e lieta festa, e il simigliante fece Gualtieri. Egli fece preparare le nozze grandissime e belle, e invitarvi molti suoi amici e parenti e gran gentili uomini e altri dattorno; e oltre a questo fece tagliare e far più robe belle e ricche al dosso d'una giovane, la quale della persona gli pareva che la giovinetta la quale avea proposto di sposare; e oltre a questo apparecchiò cinture e anella e una ricca e bella corona, e tutto ciò che a novella sposa si richiedea. E venuto il dì che alle nozze predetto avea, Gualtieri in su la mezza terza montò a cavallo, e ciascuno altro che a onorarlo era venuto; e ogni cosa opportuna avendo disposta, disse: « Signori, tempo è d'andare per la novella sposa »; e messosi in via con tutta la compagnia sua pervennero alla villetta. E giunti a casa del padre della fanciulla, e lei trovata che con acqua tornava dalla fonte in gran fretta, per andar poi con altre femine a veder venire la sposa di Gualtieri, la quale come Gualtieri vide, chiamatala per nome, cioè Griselda, domandò dove il padre fosse; al quale ella vergognosamente rispose: « Signor mio, egli è in casa. » Allora Gualtieri smontato e comandato a ogn'uomo che l'aspettasse, solo se n'entrò nella povera casa, dove trovò il padre di lei che aveva nome Giannucole, e dissegli: « Io son venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenzia »; e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s'ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e s'ella sarebbe obbediente, e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose del sì. Allora Gualtieri, presala per mano, la menò fuori, e in presenzia di tutta la sua compagnia e d'ogni altra persona la fece spogliare ignuda, e fattisi quegli vestimenti venire che fatti aveva fare, prestamente la fece vestire e calzare, e sopra i suoi capegli così scarmigliati com'egli erano le fece mettere una corona, e appresso questo, maravigliandosi ogn'uomo di questa cosa, disse: « Signori, costei è colei la quale io intendo che mia moglie sia, dove ella me voglia per marito »; e poi a lei rivolto, che di sé medesima vergognosa e sospesa stava, le disse: « Griselda, vuo'mi tu per tuo marito? » A cui ella rispose: « Signor mio, sì. » E egli disse: « E io voglio te per mia moglie »; e in presenza di tutti la sposò; e fattala sopra un pallafren montare, onorevolmente accompagnata a casa la si menò. Quivi furon le nozze belle e grandi e la festa non altramenti che se presa avesse la figliuola del re di Francia. La giovane sposa parve che co' vestimenti insieme l'animo e i costumi mutasse. Ella era, come già dicemmo, di persona e di viso bella, e così come bella era, divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata, che non figliuola di Giannucole e guardiana di pecore pareva stata, ma d'alcun nobile signore; di che ella faceva maravigliare ogn'uom che prima conosciuta l'avea. E oltre a questo era tanto obbediente al marito e tanto servente, che egli si teneva il più contento e il più appagato uomo del mondo; e similmente verso i sudditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna, che niun ve n'era che più che sé non l'amasse e che non l'onorasse di grado, tutti per lo suo bene e per lo suo stato e per lo suo essaltamento pregando; dicendo, dove dir solieno Gualtieri aver fatto come poco savio d'averla per moglie presa, che egli era il più savio e il più avveduto uomo che al mondo fosse; per ciò che niun altro che egli avrebbe mai potuto conoscere l'alta virtù di costei nascosa sotto i poveri panni e sotto l'abito villesco. E in brieve non solamente nel suo marchesato, ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella sì fare che ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare, e in contrario rivolgere, se alcuna cosa detta s'era contra 'l marito per lei quando sposata l'avea. Ella non fu guari con Gualtieri dimorata, che ella ingravidò, e al tempo partorì una fanciulla, di che Gualtieri fece gran festa. Ma poco appresso, entratogli un nuovo pensier nell'animo, cioè di volere con lunga esperienzia e con cose intollerabili provare la pazienzia di lei, primieramente la punse con parole, mostrandosi turbato e dicendo che i suoi uomini pessimamente si contentavano di lei per la sua bassa condizione, e spezialmente poi che vedevano che ella portava figliuoli; e della figliuola che nata era tristissimi, altro che mormorar non facevano. Le quali parole udendo la donna, senza mutar viso o buon proponimento in alcuno atto, disse: « Signor mio, fa di me quello che tu credi che più tuo onore e consolazion sia, ché io sarò di tutto contenta, sì come colei che conosco che io sono da men di loro, e che io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti. » Questa risposta fu molto cara a Gualtieri, conoscendo costei non essere in alcuna superbia levata, per onor che egli o altri fatto l'avesse. Poco tempo appresso, avendo con parole generali detto alla moglie che i sudditi non potevan patir quella fanciulla di lei nata, informato un suo famigliare, il mandò a lei, il quale con assai dolente viso le disse: « Madonna, se io non voglio morire, a me conviene far quello che il mio signor mi comanda. Egli m'ha comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch'io... » e non disse più. La donna, udendo le parole e vedendo il viso del famigliare, e delle parole dette ricordandosi, comprese che a costui fosse imposto che egli l'uccidesse; per che prestamente presala della culla e baciatala e benedettala, come che gran noia nel cuor sentisse, senza mutar viso in braccio la pose al famigliare e dissegli: « Te': fa compiutamente quello che il tuo e mio signore t'ha imposto; ma non la lasciar per modo che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse. » Il famigliare, presa la fanciulla, e fatto a Gualtieri sentire ciò che detto aveva la donna, maravigliandosi egli della sua costanzia, lui con essa ne mandò a Bologna a una sua parente, pregandola che, senza mai dire cui figliuola si fosse, diligentemente l'allevasse e costumasse. Sopravenne appresso che la donna da capo ingravidò, e al tempo debito partorì un figliuol maschio, il che carissimo fu a Gualtieri; ma, non bastandogli quello che fatto avea, con maggior puntura trafisse la donna, e con sembiante turbato un dì le disse: « Donna, poscia che tu questo figliuol maschio facesti, per niuna guisa con questi miei viver son potuto, sì duramente si ramaricano che uno nepote di Giannucole dopo me debba rimaner lor signore; di che io mi dotto, se io non ci vorrò esser cacciato, che non mi convenga far di quello che io altra volta feci, e alla fine lasciar te e prendere un'altra moglie. » La donna con paziente animo l'ascoltò, né altro rispose se non: « Signor mio, pensa di contentar te e di sodisfare al piacer tuo, e di me non avere pensiere alcuno, per ciò che niuna cosa m'è cara se non quant'io la veggo a te piacere. » Dopo non molti dì Gualtieri, in quella medesima maniera che mandato avea per la figliuola, mandò per lo figliuolo, e similmente dimostrato d'averlo fatto uccidere, a nutricar nel mandò a Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della qual cosa la donna né altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatto avesse; di che Gualtieri si maravigliava forte e seco stesso affermava niun'altra femina questo poter fare che ella faceva; e se non fosse che carnalissima de' figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare per più non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe. I subditi suoi, credendo che egli uccidere avesse fatti i figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo crudele uomo, e alla donna avevan grandissima compassione; la quale con le donne, le quali con lei de' figliuoli così morti si condoleano, mai altro non disse se non che quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli avea. Ma essendo più anni passati dopo la natività della fanciulla, parendo tempo a Gualtieri di fare l'ultima pruova della sofferenza di costei, con molti de' suoi disse che per niuna guisa più sofferir poteva d'aver per moglie Griselda e che egli cognosceva che male e giovenilmente aveva fatto quando l'aveva presa, e per ciò a suo poter voleva procacciar col papa che con lui dispensasse che un'altra donna prender potesse e lasciar Griselda; di che egli da assai buoni uomini fu molto ripreso. A che null'altro rispose, se non che convenia che così fosse. La donna, sentendo queste cose e parendole dovere sperare di ritornare a casa del padre e forse a guardar le pecore come altra volta aveva fatto e vedere a un'altra donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in sé medesima si dolea; ma pur, come l'altre ingiurie della fortuna avea sostenute, così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere. Non dopo molto tempo Gualtieri fece venire sue lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a' suoi sudditi il papa per quelle aver seco dispensato di poter torre altra moglie e lasciar Griselda; per che, fattalasi venir dinanzi, in presenza di molti le disse: « Donna, per concession fattami dal papa, io posso altra donna pigliare e lasciar te; e per ciò che i miei passati sono stati gran gentili uomini e signori di queste contrade, dove i tuoi stati son sempre lavoratori, io intendo che tu più mia moglie non sia, ma che tu a casa Giannucole te ne torni con la dote che tu mi recasti, e io poi un'altra, che trovata n'ho convenevole a me, ce ne menerò. » La donna, udendo queste parole, non senza grandissima fatica, oltre alla natura delle femine, ritenne le lagrime, e rispose: « Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra nobilità in alcun modo non convenirsi, e quello che io stata son con voi, da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni, ma sempre l'ebbi come prestatomi; piacevi di rivolerlo, e a me dee piacere e piace di renderlovi; ecco il vostro anello col quale voi mi sposaste, prendetelo. Comandatemi che io quella dote me ne porti che io ci recai, alla qual cosa fare, né a voi pagator né a me borsa bisognerà né somiere, per ciò che di mente uscito non m'è che ignuda m'aveste: e se voi giudicate onesto che quel corpo, nel qual io ho portati figliuoli da voi generati, sia da tutti veduto, io me n'andrò ignuda; ma io vi priego, in premio della mia verginità, che io ci recai e non ne la porto, che almeno una sola camicia sopra la dote mia vi piaccia che io portar ne possa. » Gualtieri, che maggior voglia di piagnere avea che d'altro, stando pur col viso duro, disse: « E tu una camicia ne porta. » Quanti dintorno v'erano il pregavano che egli una roba le donasse, ché non fosse veduta colei, che sua moglie tredici anni e più era stata, di casa sua così poveramente e così vituperosamente uscire, come era uscirne in camicia; ma in vano andarono i prieghi; di che la donna, in camicia e scalza e senza alcuna cosa in capo, accomandatili a Dio, gli uscì di casa, e al padre se ne tornò con lagrime e con pianto di tutti coloro che la videro. Giannucole, che creder non avea mai potuto questo esser vero che Gualtieri la figliuola dovesse tener moglie, e ogni dì questo caso aspettando guardati l'aveva i panni che spogliati s'avea quella mattina che Gualtieri la sposò; per che recatigliele e ella rivestitiglisi, ai piccoli servigi della paterna casa si diede, sì come far soleva, con forte animo sostenendo il fiero assalto della nimica fortuna. Come Gualtieri questo ebbe fatto, così fece veduto a' suoi che presa aveva una figliuola d'uno dei conti da Panago; e faccendo fare l'appresto grande per le nozze, mandò per Griselda che a lui venisse, alla quale venuta disse: « Io meno questa donna la quale io ho nuovamente tolta, e intendo in questa sua prima venuta d'onorarla; e tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciare le camere né fare molte cose che a così fatta festa si richeggiono; e per ciò tu, che meglio che altra persona queste cose di casa sai, metti in ordine quello che da far ci è, e quelle donne fa invitare che ti pare, e ricevile come se donna di qui fossi; poi, fatte le nozze, te ne potrai a casa tua tornare. » Come che queste parole fossero tutte coltella al cuore di Griselda, come a colei che non aveva così potuto por giù l'amore che ella gli portava, come fatto avea la buona fortuna, rispose: « Signor mio, io son presta e apparecchiata. » E entratasene co' suoi pannicelli romagnuoli e grossi in quella casa, della qual poco avanti era uscita in camicia, cominciò a spazzare le camere e ordinarle, e a far porre capoletti e pancali per le sale, a fare apprestare la cucina, e a ogni cosa, come se una piccola fanticella della casa fosse, porre le mani; né mai ristette che ella ebbe tutto acconcio e ordinato quanto si convenia. E appresso questo, fatto da parte di Gualtieri invitare tutte le donne della contrada, cominciò a attender la festa; e venuto il giorno delle nozze, come che i panni avesse poveri in dosso, con animo e con costume donnesco tutte le donne che a quelle vennero, e con lieto viso, ricevette. Gualtieri, il quale diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare in Bologna alla sua parente, che maritata era in casa de' conti da Panago, essendo già la fanciulla d'età di dodici anni la più bella cosa che mai si vedesse (e il fanciullo era di sei) avea mandato a Bologna al parente suo, pregandol che gli piacesse di dovere con questa sua figliuola e col figliuolo venire a Saluzzo, e ordinare di menare bella e orrevole compagnia con seco, e di dire a tutti che costei per sua mogliere gli menasse, senza manifestare alcuna cosa a alcuno chi ella si fosse altramenti. Il gentile uomo, fatto secondo che il marchese il pregava, entrato in cammino, dopo alquanti dì con la fanciulla e col fratello e con nobile compagnia in su l'ora del desinare giunse a Saluzzo, dove tutti i paesani e molti altri vicini dattorno trovò, che attendevan questa novella sposa di Gualtieri. La quale dalle donne ricevuta, e nella sala dove erano messe le tavole venuta, Griselda, così come era, le si fece lietamente incontro dicendo: « Ben venga la mia donna. » Le donne, che molto avevano, ma invano, pregato Gualtieri che o facesse che la Griselda si stesse in una camera, o che egli alcuna delle robe che sue erano state le prestasse, acciò che così non andasse davanti a' suoi forestieri, furon messe a tavola, e cominciate a servire. La fanciulla era guardata da ogn'uomo, e ciascun diceva che Gualtieri aveva fatto buon cambio; ma intra gli altri Griselda la lodava molto, e lei e il suo fratellino. Gualtieri, al qual pareva pienamente aver veduto quantunque disiderava della pazienza della sua donna, veggendo che di niente la novità delle cose la cambiava, e essendo certo ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che savia molto la conoscea, gli parve tempo di doverla trarre dell'amaritudine, la quale estimava che ella sotto il forte viso nascosa tenesse. Per che, fattalasi venire, in presenzia d'ogn'uomo sorridendo le disse: « Che ti par della nostra sposa? » « Signor mio, » rispose Griselda « a me ne par molto bene; e se così è savia come ella è bella, che 'l credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere il più consolato signore del mondo; ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all'altra, che vostra fu, già deste, non diate a questa; ché appena che io creda che ella le potesse sostenere, sì perché più giovane è, e sì ancora perché in dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata. » Gualtieri, veggendo che ella fermamente credeva costei dovere esser sua moglie, né per ciò in alcuna cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato, e disse: « Griselda, tempo è omai che tu senta frutto della tua lunga pazienza, e che coloro, li quali me hanno reputato crudele e iniquo e bestiale, conoscano che ciò che io faceva, a antiveduto fine operava, vogliendo a te insegnar d'esser moglie e a loro di saperla torre e tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco a vivere avessi; il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non mi intervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai ti punsi e trafissi. E però che io mai non mi sono accorto che in parola né in fatto dal mio piacer partita ti sii, parendo a me aver di te quella consolazione che io disiderava, intendo di rendere a te a una ora ciò che io tra molte ti tolsi, e con somma dolcezza le punture ristorare che io ti diedi; e per ciò con lieto animo prendi questa, che tu mia sposa credi, e il suo fratello: sono i nostri figliuoli, li quali e tu e molti altri lungamente stimato avete che io crudelmente uccider facessi; e io sono il tuo marito, il quale sopra ogn'altra cosa t'amo, credendomi poter dar vanto che niuno altro sia che, sì com'io, si possa di sua moglie contentare. » E così detto, l'abbracciò e baciò, e con lei insieme, la qual d'allegrezza piagnea, levatosi, n'andarono là dove la figliuola tutta stupefatta queste cose ascoltando sedea, e abbracciatala teneramente e il fratello altressì, lei e molti altri che quivi erano sgannarono. Le donne lietissime levate dalle tavole, con Griselda n'andarono in camera, e con migliore augurio trattile i suoi pannicelli, d'una nobile roba delle sue la rivestirono, e come donna, la quale ella eziandio negli stracci pareva, nella sala la rimenarono. E quivi fattasi co' figliuoli maravigliosa festa, essendo ogn'uomo lietissimo di questa cosa, il sollazzo e ' festeggiare multiplicarono e in più giorni tirarono; e savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili l'esperienze prese della sua donna; e sopra tutti savissima tenner Griselda. Il conte da Panago si tornò dopo alquanti dì a Bologna, e Gualtieri, tolto Giannucole dal suo lavorio, come suocero il puose in istato, che egli onoratamente e con gran consolazione visse e finì la sua vecchiezza. E egli appresso, maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto più si potea, lungamente e consolato visse. Che si potrà dir qui? se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de' divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d'avere soprauomini signoria? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso, non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite prove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d'essersi abbattuto a una, che quando fuor di casa l'avesse in camicia cacciata, s'avesse sì a un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne fosse una bella roba. -- [ CONCLUSIONE ] La novella di Dioneo era finita, e assai le donne, chi d'una parte e chi d'altra tirando, chi biasimando una cosa e chi un'altra intorno a essa lodandone, n'avevan favellato, quando il re, levato il viso verso il cielo, e vedendo che il sole era già basso all'ora di vespro, senza da seder levarsi, così cominciò a parlare: -- Addorne donne, come io credo che voi conosciate, il senno de' mortali non consiste solamente nell'avere memoria le cose preterite o conoscere le presenti, ma per l'una e per l'altra di queste sapere antiveder le future è da' solenni uomini senno grandissimo reputato. Noi, come voi sapete, domane saranno quindici dì, per dovere alcun diporto pigliare a sostentamento della nostra sanità e della vita, cessando le malinconie e'dolori e l'angoscie, le quali per la nostra città continuamente, poi che questo pestilenzioso tempo incominciò, si veggono, uscimmo di Firenze; il che secondo il mio giudicio noi onestamente abbiam fatto; per ciò che, se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle e forse attrattive a concupiscenzia dette ci sieno, e del continuo mangiato e bevuto bene, e sonato e cantato, cose tutte da incitare le deboli menti a cose meno oneste, niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né dalla nostra ci ho conosciuta da biasimare; continua onestà, continua concordia, continua fraternal dimestichezza mi ci è paruta vedere e sentire. Il che senza dubbio in onore e servigio di voi e di me m'è carissimo. E per ciò, acciò che per troppa lunga consuetudine alcuna cosa che in fastidio si convertisse nascer non ne potesse, e perché alcuno la nostra troppo lunga dimoranza gavillar non potesse, e avendo ciascun di noi, la sua giornata, avuta la sua parte dell'onore che in me ancora dimora, giudicherei, quando piacer fosse di voi, che convenevole cosa fosse omai il tornarci là onde ci partimmo. Senza che, se voi ben riguardate, la nostra brigata, già da più altre saputa dattorno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni nostra consolazion ci torrebbe; e per ciò, se voi il mio consiglio approvate, io mi serverò la corona donatami per infino alla nostra partita, che intendo che sia domattina; ove voi altramenti diliberaste, io ho già pronto cui per lo dì seguente ne debbia incoronare. I ragionamenti furon molti tra le donne e tra'giovani, ma ultimamente presero per utile e per onesto il consiglio del re, e così di fare diliberarono come egli aveva ragionato; per la qual cosa esso, fattosi il siniscalco chiamare, con lui del modo che a tenere avesse nella seguente mattina parlò, e licenziata la brigata infino all'ora della cena, in piè si levò. Le donne e gli altri levatisi, non altramenti che usati si fossero, chi a un diletto e chi a un altro si diede. E l'ora del la cena venuta, con sommo piacere furono a quella, e dopo quella a cantare e a sonare e a carolare cominciarono; e menando la Lauretta una danza, comandò il re alla Fiammetta che dicesse una canzone, la quale assai piacevolmente così in cominciò a cantare:
Come la Fiammetta ebbe la sua canzone finita, così Dioneo, che allato l'era, ridendo disse: -- Madonna, voi fareste una gran cortesia a farlo cognoscere a tutte, acciò che per ignoranza non vi fosse tolta la possessione, poi che così ve ne dovete adirare. -- Appresso questa, se ne cantarono più altre, e già essendo la notte presso che mezza, come al re piacque, tutti s'andarono a riposare. E come il nuovo giorno apparve, levati, avendo già il siniscalco via ogni lor cosa mandata, dietro alla guida del discreto re verso Firenze si ritornarono; e i tre giovani, lasciate le sette donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti s'erano, da esse accommiatatosi, a' loro altri piaceri attesero, e esse, quando tempo lor parve, se ne tornarono alle lor case. [ FINISCE LA DECIMA GIORNATA DEL DECAMERON ] EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Tutte le opere di Giovanni Boccaccio - Volume IV", a cura di Vittore Branca, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1976 |
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